giovedì 9 luglio 2015

IL DUBBIO DEL CANNIBALE

Questo post è una risposta a questo articolo di Mauro
Ciao Mauro. (1)
Sottoscrivo e mi auguro che tu abbia il più possibile ragione nell'impostare la questione in termini risolutamente morali.
Naturalmente uno si sente di sottoscrivere presumendo di sé, vale a dire considerandosi sostanzialmente immune dal difetto di cui si parla e quindi titolato a parlare: non fosse altro che per il fatto – esempio a caso – di essersi scelto una moglie che nei periodi impegnativi tende a dare segni di insofferenza e costringe ad esercizi di pazienza supplementari (che poi chissà a quali esercizi quotidiani quell'uno costringe lei, la moglie, a partire dai biblici (2) calzini lasciati in giro e da mille altre microdisattenzioni). Ma al di là della pulizia della mia coscienza in merito alle microviolenze quotidiane di cui tu ragioni, mi è capitato in passato di pensare, in modo mi pare abbastanza simile a te, che nessun male è giustificato. Anche ammesso che ci sia un legame tra il male che si subisce e quello che si fa, nel senso che il primo spiegherebbe in parte il secondo, anche senza scusarlo, l'impressione è che non ci sia mai una ragione sensata per aumentare gratis la quantità di dolore presente nel mondo: “E' già parecchio il male che ha delle ragioni più o meno fatali per pretendere di essere sopportato, quindi vedi di non aggiungerne dell'altro anche perchè sai che, per quanto ti abbiano trattato male, trattare male me non ti farà star meglio”. Questa mi è sempre sembrata l'esperienza decisiva: prendersela con gli altri non dà nessun sollievo, a volte neanche se questi altri c'entrano e hanno delle responsabilità, figuriamoci se non c'entrano per niente. La prima cosa che mi viene in mente in proposito è la nota riflessione di Carlo Maria Cipolla (3) sulla stupidità umana, in particolare la fondamentale (“aurea”) terza legge secondo cui “Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un'altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita”. Mi è sempre piaciuto questo criterio econometrico, che oltre ad essere elegante ti para anche il culo di fronte a chi ti rinfaccerebbe del moralismo astratto se tu chiamassi in causa principi assoluti di ascendenza baltica (che pure a me non sembrano molto diversi: basta assolutizzare il criterio econometrico chiamando in causa robe molto generali come “l'uomo” e più o meno ci siamo, mi pare...).
E' in base a questo principio che ho sempre cercato di far ragionare chiunque provasse a fare di me il terminale di uno sfogo emotivo (in sé più o meno giustificato). “Non sfogarti – mi è capitato di dire più o meno – non rovesciarmi addosso tutto il male che hai accumulato subendolo, tutta la sfiga di cui gli dei ti hanno reso oggetto e che ti getta nella disperazione (4). Non raccontarmi tutto insistendo sui dettagli strazianti ed entrando nelle pieghe della tua sofferenza, non descrivermi le tue ferite con ricchezza di particolari. Ok, posso capire che tu voglia farmele vedere, le ferite, anche solo per sapere che c'è qualcuno che ha il coraggio di guardarti e ti accetta anche conciato così, ma poi basta. Non chiedermi di prendermi sulle spalle la tua esistenza, cosa che si può fare forse, al massimo, per una persona sola una volta nella vita (per un figlio, per una donna, per un amico...) e che in genere – a chi pensi di poter affrontare la sfida – costa la propria, di vita. Chiedimi qualcosa che posso fare senza morire: ti faccio una torta, una minestra, una pastasutta, ti compro quello che vuoi, ti porto al cinema. Ti ascolto anche, naturalmente, per tutto il tempo che vuoi, ma non se ti limiti a sfogarti e basta, devi dirmi qualcosa che ci permette di pensare a cosa fare stasera, domani, la settimana prossima, di pensare a qualcosa da fare insieme per far passare il tempo, che altrimenti non passa se resti solo a guardare la catastrofe a occhi sbarrati”.
Non so se lo sfogo radicale può essere considerato un esempio pertinente, collocabile accanto alle forme di micromalvagità di cui dici tu (Mauro). A me sembra di sì, mi pare che si configuri in entrambi i casi una variante del fenomeno sociologico della chain of screaming di cui tutti abbiamo esperienza. E mi sembra vero che, dove non c'è di mezzo una questione di autentica giustizia, di riequilibrio dei torti, l'unica reazione possibile è quella della desistenza pacifica, del disarmo unilaterale, della pace interiore da salvaguardare anche a costo di assumere l'apparenza del debole. Quando da piccoli ci facevano qualcosa di male e volevamo reagire, la mamma ci prendeva e ci tirava in parte dicendoci che la brutta figura la faceva l'altro, il prepotente e maleducato. A noi sembrava un cazzo: noi volevamo pestargli la faccia a quell'odioso bastardo, e farci trascinare via ci pareva un sopruso intollerabile, oltre che una vergognosa ammissione di debolezza. E invece la mamma aveva ragione, in sostanza, perchè, a paragone del fumo della vendetta indiscriminata, la tranquillità dell'animo è tutto oro da preservare e risparmiare e non buttare via per ragioni futili.
Dunque secondo me hai tutte le ragioni. O quasi. Perchè naturalmente resta, estremo e forse insormontabile, il dubbio del cannibale. Hai presente Il silenzio degli innocenti (5) ? Il film in cui la giovane poliziotta Starling scopre il terribile assassino seriale delle giovani donne grazie all'aiuto del mostruoso pluriomicida e cannibale Dr. Lecter, che, pur essendo ormai in carcere a vita, intanto cerca comunque di servirsi di lei per mettere ancora una volta in atto i propri piani diabolici. Forse ricordi che nel momento decisivo, in cui il mostro fornisce alla poliziotta l'indizio chiave per arrivare all'assassino, le chiede qualcosa in cambio, le fa delle domande, vuole sapere di lei. Così la costringe a una specie di scavo angoscioso che la riporta alla radice delle sue scelte fondamentali, in particolare della scelta di dedicare la propria vita a ripercorrere le orme del papà poliziotto ucciso eroicamente in servizio. E alla fine lei confessa che la ragione vera, ultima e profonda della sua dedizione alla lotta contro il male è una specie di istinto irragionevole, niente affatto morale, niente affatto buono in sé. Da piccola orfana Starling era stata mandata a vivere nella fattoria degli zii. Che allevavano bestiame, tra cui agnellini. E che periodicamente macellavano gli agnellini suddetti, di cui la bambina sentiva i belati di disperazione nell'imminenza della morte. Con lo sguardo del mostro fisso negli occhi la poliziotta ammette che è il suo istinto più profondo, non un imperativo etico o un impulso ragionato verso la giustizia sociale, a spingerla a combattere il crimine. E nello sguardo del mostro lei legge: “Tu sei come me, non sei migliore: che io ammazzi la gente per mangiarla e tu cerchi di salvarla non fa differenza. Seguiamo entrambi un impulso profondo e incontrollabile: che il mio non sia socialmente accettato e il tuo sì non fa differenza rispetto al bene e al male, che naturalmente non esistono”. Starling andrà avanti da brava poliziotta, continuerà a lottare concentrata e inflessibile, ma ormai il dubbio le è venuto e l'innocenza è perduta, glielo si legge in faccia, e questo vale anche per noi spettatori ai quali però il dubbio sull'origine della morale è già venuto perchè in fondo qualche pagina dell'amigo de Zaratustra l'abbiamo letta e due pensieri sopra ce li siamo fatti.
Insomma, io continuo a essere d'accordo con te, in sostanza. Ma questo del cannibale è un argomento difficile da smontare. Mi ricordo che una volta a un matrimonio ho quasi litigato con uno più o meno della mia età che sosteneva che chi insegna è giusto che sia destinato a quella specie di marginalità sociale in cui il mondo di oggi lo mette. Diceva pressappoco che se io ero così pieno di scrupoli da voler fare un mestiere come quello del profio, con una ricaduta sociale e delle implicazioni etiche evidenti e rilevanti, erano un po' cazzi miei. Lui, che faceva il professionista e che nella sua professione poteva avere molti meno scrupoli ricavandone molti più guadagni, poteva tranquillamente ciavarsene delle mie difficoltà e della difficoltà della scuola e della società. Le quali non avevano il diritto di chiedergli quasi nulla, tantomeno del denaro in più a cui attingere attraverso le tasse: io potevo fare il buono tranquillamente visto che mi stava bene, che era, forse, la mia natura (la mia debolezza); lui aveva il diritto di fare il cattivo secondo istinto e di rampare nel mondo degli affari straciavandosene dei bisogni del mondo e della fragilità dei fragili. Non si esprimeva in modo così brutale, naturalmente, ma la sostanza del suo discorso era questa, e per quanto apparisse una persona civile e anche simpatica (così spesso simpatici i bastardi, eh?) a me era venuto l'istinto di rovesciargli in faccia una delle vantiere di antipasti che costituivano il buffet. Non l'ho fatto non solo per non dare scandalo ma soprattutto, come dicevo, per restare in pace con me stesso. Ma anche per non contraddirmi: uno degli scopi precipui della bastardaggine del bastardo è proprio farti sbroccare, così può dimostrare, secondo lui, che tu la smeni tanto col bene e la giustizia ma in realtà sei una bestia violenta come tutti, solo non hai il coraggio di cacciare e sbranare come sarebbe nella tua natura e per questo meriti – fatalmente accadrà – di soccombere e magari di estinguerti. Molto niciano, come si diceva. E mette dentro un'incertezza di cui non ti liberi. Secondo me alla fine un argomento c'è: ha a che fare con l'inderogabile necessità, che abbiamo esistendo, di comunicare con gli altri: ne parla, per quanto in termini soprattutto drammatici, diversa gente, soprattutto dagli esistenzialisti in poi. Ma non è un argomento conclusivo. E qui l'ho fatta ormai abbastanza lunga, quindi di questo certamente altrove e chissà. Ma intanto non possiamo fare altro che continuare, come Starling, a lottare contro il male e la malvagità, senza paura e con furore, sapendo bene che mentre noi ci diamo da fare come riusciamo per non fare torto e patirne il meno possibile, drio el canton de la strada potremmo vedere il dr. Lecter cannibale che ci spia e ridacchia prendendoci per il culo tra sé e sé per la nostra vana applicazione al bene. E ci tocca anche sopportarlo: ride, 'sto pezzo di merda e non possiamo farci niente. E' già tanto se, per suo capriccio, ci fa la grazia di rinunciare a saltarci addosso e farci a pezzi per mangiarci. Il giorno che si deciderà a farlo potremmo provare a chiamare in nostro aiuto l'uomo tigre, ma dubito molto che il soccorso arrivi.

P.S. Dovevo a Mauro un cenno su Dax, che è diverse cose, come spiegavo QUI
 

(1) Questo post contiene un pesante spoiler del film “Il silenzio degli innocenti”. Dubito che fra i pochi che passano di qui ci possa essere qualcuno che non lo ha ancora visto. Ma non si sa mai.
(2) Sono quelle cose da libro della Genesi su cui si fondano gli stereotipi di genere nella loro eterna verità: “e il tuo uomo guarderà lo sport in canottiera”; “e la tua donna ti porterà all'IKEA e ti farà montare e spostare infinite volte l'arredamento di casa”...
(3) Il famoso breve saggio di Cipolla si può leggere a questo link.
(4) Della disperazione e della sua probabimente inevitabile illegittimità ho parlato un po' QUI.
(5) Tutti ricordano il film di Jonathan Demme del 1991, con Jodie Foster nella parte dell'agente Clarice Starling e Anthony Hopkins nella parte del cannibale Hannibal Lecter.

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