La disperazione è umana e non si può
proibire, ma fa male, e non solo a quello che è disperato, ma a
tutti quelli che gli stanno intorno e che vengono colpiti dall'onda
d'urto che proviene dal suo dolore.
Ho già detto altrove che provo
rabbia verso chi mi sembra partire dalla disperazione come da un
assioma, prendendola come principio, come evidenza iniziale
indimostrata e indiscutibile. Ma non per questo non credo che la
disperazione meriti rispetto, specialmente se viene da qualche parte,
se è il risultato di una fra le tante possibili esperienze che
mettono in questione fino in fondo la tua fiducia nella possibilità
di fare qualcosa che sia qualcosa. Perchè: che ci hai provato, che
magari tra errori e debolezze hai tentato il possibile e non ti è
riuscito e per questo non sai se riuscirai mai o ti chiedi se sia
possibile riuscire, ecco, questo è possibile capirlo. In teoria non
dovresti mai darti per vinto fino a quando non hai spalato dentro
l'ultimo carbone, ma a volte le energie mancano e a volte finiscono:
per questo anche chi si arrende a volte è degno almeno di
compassione, di quel briciolo di affetto che non cambia niente, ma se
non altro permette a chi ha perso la speranza di pensare a se stesso
come a una cosa non spregevole.
Infiniti esempi, naturalmente. Ma questa
volta lascio perdere i classici e le avanguardie (delle quali del
resto non so niente) e ripesco un piccolo scrittore di provincia di
cui tempo fa qualcuno mi ha passato delle cose: roba semiclandestina,
stampata nella tipografia sotto casa, al massimo in qualche cento
copie da passare ad amici, conoscenti e parenti. Vendute poche,
immagino: la cartoleria in piazza e qualche bancarella in cui
qualcuno per caso sfoglia e legge una pagina e si interessa un minimo
(massì, visto che costa quasi niente...). Si chiama Giorgio Carbone
e non ha qualità particolari: scrive poesie con poca musica e
racconti brevi con scarso respiro e non moltissima cura. Ma è uno
che ha una sua dignità minore, che produce suppellettili letterarie
un po' grezze ma con una loro onestà, che hanno dentro una fatica di
vivere superiore a tante ma uguale ad altrettante, raccontata a volte
con accenti di una certa durezza, ma anche con una specie di amarezza
tranquilla, capace di rubarti un sorriso di comprensione o una
stretta di mano. Sono cose tipo questa (1):
Chi ti rimprovera
perchè sei disperato
non capisce
proprio
niente.
O questa:
Finchè servi
ti cercano,
poi basta
(almeno se sei stato
stronzo abbastanza
da riuscire a non
farti amare
davvero
da nessuno).
Quando muoio
non seppellitemi:
datemi da mangiare
a qualche bestia.
Giusto per precisare
che nessuno
conta
un cazzo.
O anche questo finale di racconto
(Notturno, l'ultimo della raccolta Non è mai abbastanza),
in cui al protagonista (che semplicemente cammina e pensa) non
succede niente, ma quello che gli è successo prima basta
evidentemente a farlo pensare male un po' di tutto:
[…] E se adesso, mentre cammino in
mezzo ai campi da solo, di notte tardi, al buio e al freddo,
incrociassi la botta di matto di uno che sta nascosto con una pistola
tra le viti o dietro quella siepe, uno che per scherzo mi spara? Uno
che lo fa gratis, perchè è fatto così, e mi spara senza che io
quasi me ne accorga, in modo che sento appena il rumore; uno che mi
colpisce bene in una parte vitale, così quasi neanche arrivo a
sentire il dolore della pallottola nel corpo; da dietro, in modo che
il colpo mi spinge avanti e cado a faccia in giù e riesco solo a
mettere automaticamente le mani avanti ma in pratica non mi accorgo
di niente. Non sarebbe meglio?
Un pensiero che non è una possibilità
e neanche una speranza, che ha meno consistenza del fiato che butto
fuori: non serve neanche che cambi idea per essere certo che non è
questo che sta per succedere. Nel settore della morte la domanda e
l'offerta si incontrano male: di solito chi muore non voleva; invece
a quei pochi che magari lo vorrebbero davvero tocca tirar fuori un
coraggio che non si inventa in un minuto.
Così, mentre prendo atto del fatto
che nessuno mi ha ammazzato, giro l'angolo della strada di casa e,
vedendo la luce accesa in cucina, mi ricordo che tra poco dovrò
affrontare mia madre, un'altra delle infinite occasioni in cui mi
confermerà che non è più capace di volermi bene e che nel suo
cuore qualsiasi traccia di affetto è stata coperta e soffocata
dall'istinto di dirmi quello che non va in me e quello che faccio di
sbagliato. Le madri per essere crudeli scelgono spesso questo modo
banale ma efficace.
Adesso, se l'autore di questo racconto
fosse un po' audace e avesse un gusto un po' splatter, o magari
qualche speranza di farsi un po' di spazio all'interno di un genere
popolare, potrei salire con calma, decidere che stavolta sono io
quello che viene preso da un raptus, tirare fuori uno dei coltelli
grandi dal cassetto della cucina e tagliare la gola alla vecchia
schizzando bene il sangue in giro. Poi fuggirei biblico nella notte e
mi farei abbattere dalla polizia durante la fuga, o mi lascerei
morire di freddo spogliandomi nudo in mezzo ai campi e buttandomi per
terra sulla riva di un fosso gelato, per far venire un po' di brividi
al lettore con la descrizione in soggettiva dell'assideramento che
arriva e lentamente mi irrigidisce. Invece no: l'autore non ha manco
questo coraggio. Quindi mi tocca salire le scale e fingere pazienza e
magari gentilezza. Cenare scambiando qualche parola, poi trovare una
scusa per non stare a vedere la tele e andare a letto con un libro
salutando con falso affetto. E aspettare: stanotte e domani e ancora.
Tanto l'orologio è già caricato e va avanti regolare verso l'ora
stabilita: basta lasciarlo arrivare, così poi gli altri non si
impressionano troppo e possono dire che sì, il dolore, ma la vita
continua. Il che naturalmente non è vero.
E fa meno male, (forse anche a se
stessa, visto che non si ingrossa con qualche genere di rimorso) la
disperazione che non travolge il rispetto per gli altri o qualche
genere di sentimento umano, tipo:
Posso metterci impegno,
come faccio sempre.
Sostenere giuste cause, combattere
con nobile pazienza
perchè le cose vadano un po' meglio.
Tenere sempre viva la tensione
morale. Guardare agli altri
con il sentimento
di amore e compassione
che ti permette di restare umano.
E, anche sui problemi più difficili,
provare a inventarmi soluzioni
a cui nessuno ha ancora mai pensato.
Ma non mi servirà.
Perchè comunque so
(adesso sono certo)
che nessuno e niente
mi verrà mai
a salvare
da
questa
solitudine.
Questo tipo di atteggiamento lo condivido
profondamente, anche se penso sempre che la speranza non si dovrebbe
mai né perdere né tantomeno togliere agli altri: il banale
pessimismo della ragione, sul quale poggia una volontà che non è
ottimistica ma fa quello che fa semplicemente perchè non sa che
altro fare. E che sa di non essere in grado di barare sul serio: va
bene l'incertezza la debolezza lo sfinimento, ma non l'ipocrisia la
vigliaccheria l'approfittarsi degli altri:
Darsi il permesso
di essere cinici.
Ma solo
anche verso di sé.
Se no non vale.
La
disperazione fa male ma è umana, si diceva. Tanto che, se uno non si
limita a seminare nichilismo a gratis
ma ha delle ragioni vere per non essere contento, anche se non gli è
successo niente di particolarmente grave, può anche trovare un
minimo di conforto in quello che di negativo c'è in qualcun altro, può
sentirsi meno storto o sbagliato o innaturale, pur non arrivando
certamente neanche a un quarto a o un quinto di gaudio. Ma alla fine,
per rendersi conto che la disperazione, anche quando è ragionevole
non si può giustificare, non occorre neanche scomodare le pagine
della Fondazione della metafisica dei costumi (2):
basta avere il senso della pietà umana. E' vero che anche la
disperazione può essere letta come una forma di pietà per se
stessi, ma che peso ha rispetto all'umanità e al mondo? Quel peso
non è mai abbastanza. Ma a volte noi pensiamo: in fondo, l'umanità,
il mondo, chi sono?
P.S.
L'espressione “fuggire biblico nella notte” Carbone l'ha copiata
da Andrea Pazienza: l'ho sgamato. Mi ricordo benissimo il fumetto in
cui il diabolico Zanardi offre all'“amico” Palmiro una donna da
sodomizzare coperta da un lenzuolo. Solo alla fine dell'operazione il
lenzuolo viene tolto e Palmiro scopre che la donna è la sorella
(sedotta e costretta dall'infame e perverso Zanardi). E' allora che
“fugge biblico”, sale in macchina e si schianta trovando tragica
pace.
(1) Tutte le poesie sono tratte dalla
raccolta Stecchi ([...] Piantare le parole nel
terreno. // Stecchi / che trovo persi in giro e / che raccolgo e /
che affondo nel fango con il pugno [...])
(2) Dove dicono che uccidersi non
può essere lecito, perchè se si fa la prova del nove (quella per
cui, per vedere se una cosa è giusta in un dato caso devo far finta
che tutti facciano necessariamente e automaticamente quello che io
intendo fare in quel caso), dato che tutti prima o poi si sentono
disperati, è evidente che non si può reggere l'ipotesi che chiunque
è disperato automaticamente si uccida... Per chi non lo ricordasse
la FMC è Kant.
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