giovedì 29 settembre 2016

CANI MARRONE

Il piccolo cane marrone che ho incrociato lunedì sera sia all'andata che al ritorno dalla seduta della 1^ commissione (affari generali) del consiglio comunale di Oderzo era pressappoco come questo (che è un border terrier) ma aveva decisamente qualcosa del bastardo, del cane di strada a cui non gliene frega un cazzo di niente.
E chi vuoi che stia dietro a questa vecchia faccenda del destino? Anche la parola manco la si usa più, almeno nel linguaggio corrente: V. (ed evidentemente anche i suoi amici e compagni, quelli un po' cavadi su) a volte usa la parola karma, che però non deve voler dire proprio la stessa cosa perché ha che fare col ciclo delle reincarnazioni. Ma non entro nel merito di una cosa in cui mi perderei subito dato che dell'induismo non so niente. Mi limito a ricordare due coincidenze curiose del tipo di quelle che quando ti succedono pensi che qualcuno vuole dirti qualcosa. E naturalmente non hai idea (o non sei sicuro) di cosa sia, ma non ti liberi dall'impressione per un pezzo, anzi forse non te ne liberi più.


Tanti anni fa. Non ricordo quanti. Quand'è che ancora andavo al mare con gli amici in giornata? Tantissimo fa. Ma forse non era il mare. Se era il mare doveva essere Lignano o Bibione perché al ritorno sono certo che si passava da Portogruaro (Puàrt), ma potrebbe essere stato anche un giro a Trieste o a Gorizia o su da qualche parte oltre Latisana. Comunque giornata di festa in giro con amici. Quali amici? Potrei fare due o tre ipotesi ma non importa. Comunque non guidavo io: io ero all'altro posto davanti, mi pare. E guardavo con preoccupazione la coda. Si era formata già in autostrada prima di Latisana tipo per un incidente grave? Forse sì. E quindi, dopo chilometri a cinque all'ora, eravamo usciti tipo proprio a Latisana per prendere la Postumia. Geniale, perché naturalmente qualche altro centinaio di macchine, ciascuna col suo team di navigatori dentro, aveva preso la stessa decisione e la coda sulla Postumia era come e peggio di quella in autostrada.
Qui poi non è questione di pazienza in sé: di quella mi riconoscono spesso che ne ho abbastanza. E' piuttosto una specie di insofferenza alle mani in mano. Su questo mi sento parte di quella tribù, forse poco saggia e magari perfino un po' disgraziata e dannosa, i cui membri, piuttosto che stare ad aspettare che il pero caschi dal ramo, preferiscono decidere di fare qualcosa. Non qualcosa purchessia, ma qualcosa in cui credono di vedere un'utilità, magari lontana: qualcosa che possa apparire in quel momento come un principio di soluzione.
E quella volta, mentre ci avvicinavamo a Puàrt, mi era salito dentro una specie di respiro profondo: io quei posti un po' li conosco perchè ci ho i parenti. E se riuscivo a trovare un passaggio per le strade basse che mi portasse fuori fino a Concordia (Knqvàrdia) avremmo tagliato tutto il centro città e ci saremmo salvati da quella specie di agonia. Quasi mi rivedo mentre con aria ispirata mi sporgo in avanti sul sedile e dico - più o meno - al guidatore (chi era? Mah...): “Buttati dentro a sinistra!”. Sguardo perplesso e interrogativo, di fronte al quale io ostento una sicurezza che non ho e, giocandomi i nervi il sudore e la stanchezza di tutto l'abitacolo, insisto, come il comandante di Sartre, che sa di mettere a repentaglio la vita di tutta la pattuglia, ma è convinto che proprio perchè è responsabile deve decidere, sapendo che anche l'inerzia è in effetti una sequenza di (non) decisioni. Allora cominciamo a girare per stradine sempre più strette e perse, mentre io, nella luce del crepuscolo, guardo avanti lontano in cerca di indizi che mi consentano qualche orientamento. La direzione è quella, ma di mezzo ci sono case e campi coltivati; fossi, canali e fiumi; capannoni sparsi o raggruppati. Il campanile di Knqvàrdia si vede in fondo, per due o tre volte sembra che ci si avvicini, ma poi la strada si interrompe sempre. A un certo punto impongo al guidatore basito (anche perchè la macchina è la sua e lui teme anche per le sospensioni e la coppa dell'olio) di prendere una strada bianca. E' chiaro che è un tentativo disperato: fossi riuscito sarei stato non dico l'eroe della giornata, ma almeno quello del viaggio di ritorno. E avremmo potuto essere a casa in anticipo forse di una mezz'ora su tutti gli sprovveduti che, non assistiti dalla mia esperienza e dal mio coraggio, erano rimasti in coda passivi e impotenti. E avremmo potuto farci un'ombra di bianco fresco all'osteria in piazza alla facciaccia loro di fessi boni da gnent. Ma questo microtrionfo non me lo sarei mai goduto, anzi: quella mossa rischiosissima mi avrebbe potuto guadagnare non solo disistima e prese per il culo, ma anche punte di incazzatura autentica (specie dal guidatore la cui macchina ovviamente preziosissima e diletta si stava come minimo riempiendo di polverazzo estivo). Infatti niente da fare: lo sterrato finiva in un rustico niente e la rassegnazione mi aveva fatto uscire la mezza voce che serviva ad ammettere che il bon da gnent ero io, che la mia agitazione era stata inutile e che potevamo tornare sullo stradone.
Quello era stato un po' più facile: il percorso all'indietro in fin dei conti poteva servirsi della memoria recente del percorso in avanti. Anzi: tutto sommato ci era sembrato di poter tagliare un po' per provare a reimmetterci nella Postumia un po' più avanti di dove eravamo usciti. E infatti non avevamo proprio perso del tutto il tempo: a un certo punto ci vediamo davanti la fila delle macchine in fondo a una trasversale e, visto che procedono piano come prima, ci affianchiamo fino a che qualcuno ci lascia spazio gentilmente. Quanto eravamo stati in giro? Un quarto d'ora, forse venti minuti? Forse. Ma la cosa incredibile è che la macchina davanti a noi nella coda era esattamente la stessa dietro alla quale stavamo quando ne eravamo usciti, una berlina di un rosso/arancione metallizzato segnata in modo inconfondibile da un adesivo con la bandiera di San Marco sul cofano posteriore. Lo faccio notare, qualcuno la riconosce. Non che con questo io mi riscatti del tutto, ma in fondo già ero stato mezzo perdonato, anche perché la deviazione non era stata poi né lunghissima né dannosa. Quella coincidenza aveva fatto venire dei pensieri un po' a tutti, anche se solo per qualche secondo. Io naturalmente pensavo a Samarcanda e alla morte (oh oh cavallo...) e pensavo che qualche Dio mi voleva dire - proprio a me, il vano agitatore - di non agitarmi troppo e di non agitare gli altri, che tanto si vedeva bene che non serviva a un cazzo.
Temo per me e per quel Dio che l'avvertimento, pure bellissimo, non sia servito. E' che, aspettare per aspettare, preferisco aspettare agitandomi: è proprio una condizione che mi fa sentire meno peggio, meno in colpa, come se fossi convinto che in fondo lo stesso Dio che sembra dirmi di stare chieto alla fine poi invece sia più disposto a perdonarmi se vede che mi sono sbattuto un po'. E' un pensiero che, riletto adesso a freddo, sembra davvero non poter appartenere alla serena coscienza del saggio, colui che riposa nella contemplazione di un ordine che è insieme un mistero, e che agisce solo quando un segreto richiamo lo spinge, ottenendo col suo minimo gesto tutto quanto comunque avrebbe mai potuto ottenere. Ma sono sicuro, dicevo appunto – che se mai una volta ho potuto pensare che questa purezza spirituale mi sarebbe stata raggiungibile, adesso so senza dubbio che è perduta per sempre.

Lunedì sera, prima di cena. Riunione della prima commissione del consiglio comunale, quella dedicata all'esame degli “affari generali”, che comprende tra l'altro tutte le questioni relative al bilancio. Cose di cui io capisco pochissimo e la cui preoccupazione, mentre me la porto dietro camminando verso il municipio, appunto per questo mi opprime e mi spreme fuori i soliti pensieri: quello della mia inettitudine alla politica, quello della conseguente e naturale inutilità del mio personale impegno politico, quello dell'inutilità di qualunque impegno politico, quello dell'irrecuperabilità dell'Italia alla civiltà propriamente detta, e via di allegrezza in allegrezza. Mentre alto sopra la fronte mi si sprigiona questa specie di pesante quantunque aereo fardello, ho gli occhi in basso e vedo che mi passa accanto un cane.
E' un cane piccolo, marrone. Mi sfila lungo il tratto di marciapiede sotto i portici tra il cinema e la farmacia, qualche metro lastricato di una vecchia pietra lisciata da infiniti passaggi e sulla quale le mie scarpe consumate scivolano un po' e le unghie del cane fanno un rumore secco come di sasso contro sasso, senza raspata ma con un colpetto sonoro e con un ritmo quasi allegro. Ma il cane non è allegro, ha un'espressione seria. Per un secondo mi viene la tentazione di allungare la mano, ma lui non mi presta nessuna attenzione e si allontana in direzione contraria senza che io neanche faccia in tempo di pensare seriamente a compiere il gesto.



Niente. Vado in Municipio, dove succedono poche cose. Poi torno, ancora sempre tormentato con insistenza dal fantasma della politica e dall'ombra del consiglio comunale previsto per due giorni dopo. E però, quando sono ormai vicino a casa, diciamo a cento metri, appena fuori dal portico di un edificio storico, incrocio di nuovo il cane. E' lui? Ma non è possibile. Sì è lui. Potrei giurarlo? No, ma ci scommetterei. Intanto che mi faccio le domande è passato. Non ho nessuna probabilità di riuscire a raggiungerlo anche se lo inseguo, e del resto manco mi viene in mente. Non sarò mai sicuro. Ma sono convinto: era lui. Mi è ripassato accanto camminando sicuro, con il passo rapido e regolare di chi sa dove va e ci va con convinzione, facendomi capire che la strada è sua molto più che mia e che la sua mente – diversamente dalla mia - non è attraversata dal minimo dubbio: non va in giro a caso come i randagi, non fa attenzione a niente, non mi guarda, nessuna cosa lo interessa se non di andare dove vuole andare (o tornare, visto che sembra stia tornando) in quel momento. E' andato altrove, chissà dove, in direzione contraria alla mia, mettendoci – per farsi i suoi affari di cane - esattamente lo stesso tempo che ci ho messo io a fare la mia dolorosa parte di uomo che si preoccupa del bene comune. Ci ha messo anche lui un tempo determinato, esattamente lo stesso che ci ho messo io, come se avesse anche lui – lui cane - un impegno preciso (un amico una morosa un parente un affare da sbrigare). E con il suo sguardo dritto, con le sue zampe leggere, col tec-tec delle unghie, mi ha fatto vedere – direi apposta, direi quasi con sfida e forse supponenza – che lui sta bene e non ha un grammo di cielo che gli pesi sull'anima (ce l'ha di sicuro, l'anima) al contrario di me che mi sento scaricare su ogni centimetro quadrato di cervello il peso del cosmo e non son più capace di pensare.

Ian Mc Ewan – come è noto - ha usato i cani neri come l'immagine stessa del Male, dell'istinto alla forza senza ragione il cui germe tutti abbiamo dentro nel profondo. E allora adesso come devo interpretare io - simbolo o segno o manifestazione di che cosa sarà mai - questo cane marrone?


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