lunedì 9 febbraio 2015

MICHELA!

Maggie Smith nella parte della barbona assomiglia vagamente all'Anna Maria
A volte ho un po' paura di quello che mi aspetta. Non è tanto la vecchiaia con tutto quello che segue a fare spavento. Anche quello fa spavento, certo, ma è messo in preventivo e si spera solo di avere la saggezza necessaria ad accettarlo, cosa riuscita a un sacco di gente, quasi a tutti, con più o meno dolore.
L'inquietudine viene dal constatare che, col tempo, dentro il perimetro della mia anima il Pazzo Agitato sembra guadagnare lentamente spazio: questo a discapito sia della mia identità ufficiale, il cui spessore si assottiglia progressivamente, sia di Dolores, la cui posizione, che è sempre stata un po' marginale, resta in secondo piano, costretta a giocare di rimessa, in difesa, a opporre resistenza passiva. Io pensavo che Dolores, col suo equilibrio naturale, con la sua sapienza tattile, avrebbe potuto integrarsi un po' alla volta con la maschera che mi ricopre e determina, in modo da dare un po' di sostanza e peso a un profilo che il mondo quasi tutti i giorni ulteriormente snatura centimetro dopo centimetro. Invece Dolores non sa combattere il presente, non ha armi per farlo. Si limita a difendere il passato ma senza riuscire a trattenerlo dal suo scivolare verso la morte. Quindi il pazzo, che si agita e ride di un riso crudele e ridicolo e grida contro nemici immaginari, diventa sempre più forte e coraggioso, e mentre prima si faceva vivo solo a casa, per scherzo e con una certa discrezione, adesso a volte prende il sopravvento e decide di emergere in momenti inopportuni, per esempio spingendomi a inveire contro gli studenti in classe (“Cani! Vigliacchi! Cani! Cani!”). La cosa non fa problema, la butto in gioco e nessuno se ne accorge, dato che siamo ancora molto molto lontani dalla linea della perdita di controllo. Ma io sento che qualcosa in me sta cedendo, come punti che si smagliano, e mi vedo davanti agli occhi, in fondo, distante ma presente e identificabile con sicurezza, una forma minuta e instabile, un'ombra tremula e minacciosa, una sagoma grottesca e irridente: lo spettro della Anna Maria Sale (1).

Spesso compariva in silenzio: come tutti suonava e spingeva il portone quando la si faceva passare sbloccando la serratura con l'interruttore elettrico, poi entrava in fretta e a passetti veloci attraversava il cortile per rifugiarsi al caldo. Ma a volte la sentivi arrivare da lontano, che gridava camminando piano lungo la Fondamenta della Misericordia. Chiamava: “Michela! Michelaaaaa!”. Tirava lunga la a in una specie di lagna. Michela era sua figlia, ma non era con lei. In realtà non era neanche da qualche altra parte: non c'era e basta, non esisteva. Così almeno ci avevano garantito i servizi sociali: Anna Maria non aveva mai partorito, nessun figlio suo era mai stato registrato da nessuna parte né si potevano ricavare da qualche parte, tantomeno da lei, notizie che ci aiutassero a capire. Potevamo fare tutte le ipotesi che volevamo: figli segreti, aborti, situazioni familiari drammatiche di tutti i tipi, erano comunque tutti e solo esercizi di immaginazione. Non abbiamo saputo e non sapremo mai perchè Anna Maria chiamava una Michela fantasma, ma siamo certi che la considerava evidentemente come il principale e forse unico sostegno e consolazione di fronte alle difficoltà dell'esistenza e alle spine della solitudine. Erano lei e Michela contro il Resto del Mondo, come si capiva dal fatto che le lunghe sequenze di richiami spesso venivano interrotte di colpo da uno scatto del corpo all'indietro, verso un insieme di nemici non ben definito ma chiaramente appartenente al genere femminile: “Brute putane! Putane! Porrrche!” (con tre o quattro erre). Non si capisce cosa le facessero queste donne, ma erano molto malvagie, perseguitavano Anna Maria, le andavano sempre dietro offendendola, prendendola in giro, magari in attesa di un suo momento di distrazione per rubarle qualcosa. Ma soprattutto l'impressione era che mettessero in forse il suo sacro legame con Michela, che le volessero separare, che gliela tenessero nascosta per pura cattiveria. Perchè un motivo non c'era: a volte Anna chiedeva alle nemiche, sempre gridando, sempre col suo tono esasperato e disperato: “Cossa voléo da mi? Andè via! Putane! Porrche! Porrrrche!” ed è chiaro che nessuno le dava una spiegazione. Così tornava a girare nella sua desolata ricerca di niente, continuando a picchiare il nome di Michela sulle pietre delle calli e sugli intonaci dei muri come un cieco che si orienti col rumore del suo bastone bianco.

E' naturale che molti dei barboni che frequentavano la comunità di Betania (accoglienza pomeridiana e cena, più una serie di altri servizi) presentassero questa caratteristica di combinare in modo inseparabile il ridicolo e il dramma. E se guardavo le cose solo sotto la luce del dramma diventava più difficile resistere, pensando a quelle vite crollate e fatalmente impossibili da ricostruire, anche solo in parte. Allora a volte ci ridevo sopra: all'inizio sentendomi un po' in colpa, poi con più leggerezza, specie dopo aver visto che Carlo, il fiol che lavorava lì prima di me, si riferiva all'utenza disgraziata con il nome collettivo: “i mostri”. Non erano mostri, lo sapevo benissimo, ma siccome tutti i giorni facevo il possibile per loro, mi sentivo abbastanza innocente anche quando ogni tanto, interiormente, perdevo un po' la pazienza e, sempre interiormente, li mandavo a cagare perchè ero stufo. Poi, esteriormente, facevo comunque tutta la mia parte, che comprendeva tra l'altro, secondo il metodo educativo di Don Giorgio (2), la pulizia dei cessi dei barboni tutte le sere prima di cena. Non solo era formativo, ma anche evangelico: mettersi al servizio di una causa che si può vincere è sensato, ma tenere in piedi dei ruderi destinati solo a deperire progressivamente a volte poteva sembrare inutile e per questo era una sfida fondamentale al nostro rispetto per la persona, anche la più scassata. Non mi lamentavo: sapevo che per gli altri, che lavoravano coi tossici o con gli ex carcerati, era più dura perchè vivevano tutto il giorno insieme a gente difficile, a volte dormivano nella loro stessa stanza, dovevano provare a stabilirci un rapporto che non sapevano mai quanto poteva diventare personale e quanto li poteva scuotere. Io lavoravo sodo, ma con i miei stavo solo il pomeriggio, e la sera dormivo in una camera singola e pure grande. Non mi potevo lamentare, ma la pena di non vedere mai nessuno migliorare e tirarsi fuori restava, e aveva un po' di peso anche quella.

Uno che avevamo provato a tirare in qua era Bepi Praitano, uomo solitario e apparentemente mite, ma con un'inclinazione pericolosa per il vino e una per le donne, meno grave e più pittoresca ma anche quella potenzialmente fonte di qualche guaio. Anche di Bepi non si sapeva la storia. Era sostanzialmente a posto con la testa e quando non beveva era in grado di fare il suo mestiere di calzolaio in modo assolutamente efficace e competitivo rispetto alle condizioni di mercato. Senza l'alcool avrebbe potuto fare una vita tranquilla. Aveva anche i requisiti per farsi assegnare un piccolo alloggio popolare dal comune invece di fare il randagio, ma non era facile. Gli avevano assegnato quaranta metri a Mestre in periferia verso la Miranese, un palazzone grande e quasi nuovo. Lo avevamo aiutato a traslocare portandogli là le sue cose con la barca e il furgone, ma non c'erano santi: dopo qualche mese, quando siamo ripassati a vedere, il disordine e lo sporco erano impressionanti. E poi lui non voleva stare a Mestre: dopo un po' è riuscito a cambiare i quaranta metri seminuovi con venticinque metri vecchi e abbastanza malmessi verso Castello, mi pare dalle parti di S. Francesco della Vigna, ma noi non ce la facevamo ad aiutarlo a tenere in ordine: anche lì lo avevamo aiutato a portare la roba, ma nel giro di qualche settimana era il solito casino.

Perchè Bepi beveva, scelta o destino del quale nessuno può giudicare senza sapere con che incubi doveva fare i conti. Il Don Giorgio gli aveva attrezzato una specie di sgabuzzino in cui poteva lavorare, ma io gliel'ho visto fare piuttosto raramente. Invece lo vedevo abbastanza spesso arrivare “carico”, camminando quasi allegro e parlando ad alta voce. Le cose che diceva, quelle sì facevano un po' problema. Il vino gli svegliava i desideri e lo spingeva ad avvicinare le donne in modo indubbiamente poco urbano: “Ciao, vulva...”, era uno dei suoi modi preferiti per apostrofarle, signore perbene che affrettavano il passo tenendosi al margine della calle o addirittura scappavano corricchiando piene di paura. Poi mi guardava e diceva per esempio: “No ti senti che spussa da mona?”. Io cercavo di farlo tacere e portarlo dentro, ma a volte lui si rivolgeva al quartiere gridando in aria: “Che spussa da monaaa!!!”. Le donne nel raggio di cento metri sparivano, ma in realtà in quei casi Bepi non era pericoloso, bisognava solo gestirlo un po'. Difficilmente faceva male agli altri: una volta diede due pugni, ma sul muro della fondamenta, spellandosi le mani tanto da dover ricorrere al pronto soccorso, dove si lasciò portare docilmente e obbedì a tutti e a tutto. Io mi raccomandavo e lui mi guardava con l'occhio acquoso e mi diceva: “Sì, stago qua, stago bon...”. E poi chiudeva stretta la bocca e tornava muto e mite. Ogni tanto mi diceva: “Che forte che ti sì, ti sì che ti sì forte...”, parole che non sapevo se volessero esprimere un po' di gratitudine per quel minimo di attenzione che gli davamo o fossero solo la nostalgia di una normalità che in me vedeva ancora e che invece, quanto a se stesso, sapeva di aver perso.
Il portone della comunità di Betania
Tra Bepi e l'Anna Maria, incredibile, c'era qualcosa. Di lui si poteva anche pensare che fosse in grado di rimediare ogni tanto qualche donna. Al netto del degrado non era male come uomo e poteva anche saper fare abbastanza da farsi accettare per qualche tempo o saltuariamente da una del suo ambiente. Di lei sembrava strano che, chiusa com'era nella sua bolla di ossessioni, potesse essere sensibile a qualche tipo di comunicazione personale. Invece, miracoli del sesso, qualcosa c'era. Ogni tanto, quando Bepi era in giro, le diceva qualche parola e lei ascoltava e cambiava espressione, anche se poi di solito se ne andava. Ma una volta in particolare, che lui aveva bevuto e a me era toccato di tenerlo buono, mentre eravamo in fondamenta, giù dal ponte che dà direttamente sul portone, è arrivata lei, l'Anna Maria, che sembrava non avere per noi la minima attenzione salvo poi fermarsi quasi di colpo quando Bepi le ha parlato rivolgendosi a lei in un modo quasi da ragazzino che abborda la toseta in piazza o alla sagra: “Ohi, dove ti va? Speta, speta, vien qua co mi,...”. L'Anna Maria si ferma e, incredibile, sorride, sorride proprio. Si schermisce inclinando la testa e nascondendo il viso nel bavero del cappottino rosso corto che indossa e dal quale spuntano le sue due gambe stecche, ma sorride. Io in pochi secondi passo dalla sorpresa alla folgorazione. Mi viene il sospetto e, stupidamente, considero con stupore e raccapriccio la possibilità che i due siano amanti. Solo dopo qualche momento penso che in fin dei conti se potevano scambiarsi qualcosa non c'era davvero niente di male e che l'unico dubbio era se riuscivano a comunicare abbastanza per riuscire ad avvicinarsi. E' stato più o meno allora che Bepi mi ha tolto i dubbi chiedendo alla donna: “Vero che dopo ti ti vien co Bepi, ah? Bepi, che el ga l'osèo bèo...”. L'Anna Maria si era fermata e si dondolava appena su un piede, con un'aria che definirei sbarazzina se l'aggettivo non fosse del tutto improprio rispetto alla sua condizione. Però rideva quasi, imbarazzata e lusingata da questa franca e affettuosa dichiarazione d'amore in pubblico, alla presenza di estranei. E' stata una vera sorpresa (e insieme un ammaestramento) questa scoperta che anche all'Anna Maria si poteva arrivare, mentre io forse fino a quel momento avevo pensato che lei il cuore manco ce l'aveva, o se ce l'aveva era sprecato, come dice il poeta.

E' per questo che, quando il Pazzo Agitato vien fuori e minaccia di prendere il sopravvento, io penso all'Anna Maria Sale: è una questione di spreco del cuore. Se il tuo cuore va sprecato il rischio alla fine è che arrivi a soffiarti attorno una bolla di ossessioni e ti ci chiudi dentro. Per questo, al di là del decadimento fisico, ho un po' di paura che prima o poi, complice la vecchiaia, potrei perdermi del tutto e cedere il passo a qualche genere di demenza, finendo i miei giorni in giro per le strade come un cane a gridare, a chiamare Michela. O qualche altro nome, o quello di Dio, o anche niente di intellegibile.

(1) Questa volta il nome è autentico, come lo è quello di Bepi, di cui infra. Se utilizzo dati che per qualcuno sono sensibili e questo qualcuno lo viene a sapere, mi scuso e sono ovviamente disposto a usare nomi di fantasia. Ma non credo succederà. 
(2) Don Giorgio Bagagiòlo è vivo e sta bene, compatibilmente con i suoi 92 anni. Almeno credo: me lo ha detto un paio d'anni fa Tiziano, il diacono permanente con cui ho condiviso parecchie cose di quell'anno e rotti di vita, e me lo testimonia questo articolo di Gente Veneta. Il suo carattere non facile ma bello e il suo modo personale e autentico di declinare il cristianesimo meriterebbero uno spazio per loro conto. Magari. Prima o poi. [P.S. Scrivendo queste due righe mi sono immaginato Don Giorgio che le legge scandendo bene le parole, con la sua eterna aria di presa per il culo. Sono certo che farebbe esattamente così, prima di mandarmi, diciamo, a quel paese.]

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