domenica 28 settembre 2014

PARTIGIANI (2)

 
Ho visto l'altro giorno che Simone dice pressappoco che secondo lui è un errore insistere sulla memoria divisa della Resistenza: secondo lui la strumentalizzazione (l'uso pubblico) della storia è colpevole soprattutto di avere prodotto l'immagine di una Resistenza fatta di gruppi in opposizione anche radicale tra loro. Invece, dice lui, si dovrebbe prima di tutto raccontare la fondamentale unità che ha spinto a lottare per la libertà persone che avevano provenienze sociali e ideali differenti.
Nell'insieme sono d'accordo, in sostanza. E' vero che una parte delle istituzioni e dell'opinione pubblica ha cercato subito di rimuovere e insabbiare quanto possibile la memoria, allora recente, della Resistenza proprio sottolineando prima di tutto le divisioni ideologiche tra i diversi orientamenti e il ruolo fondamentale esercitato dai comunisti. Questa è ancora un po' la posizione, per esempio, di Galli della Loggia e di quelli che dicono che la patria è morta l'8 settembre '43 e che la Resistenza non è bastata per darle delle nuove fondamenta proprio per colpa dello spirito di parte (e di vendetta) e delle velleità rivoluzionarie dei comunisti (1). A me non pare che le cose stiano così: anche se il registro fondamentale secondo cui raccontare la Resistenza deve essere più quello del dramma (e spesso della tragedia) che quello dell'epica, credo esattamente che sia comunque in questa storia, magari non sempre eroica e splendida (ma in molte occasioni anche sì), che possiamo senza dubbio trovare le ragioni che ci permettono di stare insieme come italiani, il progetto di un paese moderno e libero (2). E il tentativo (inefficace e in sostanza sbagliato, ok) di scolpire un monumento puramente celebrativo alla Resistenza mi sembra sia stato in parte una reazione al tentativo (quello sì piuttosto efficace, anche se certamente ancora più dannoso) di minimizzarne il significato e gli effetti per ridurne la portata in termini di novità e rottura. Sono state scritte migliaia di pagine su questo tema del tradimento della Resistenza, sulla continuità tra la classe dirigente dell'epoca del fascismo e quella dell'età repubblicana, e non sarò certo io ad aggiungere qualcosa ai termini della questione. Ma credo che il problema stia proprio nel rifiuto di una parte dell'opinione pubblica di riconoscere che solo nelle idee e nei progetti di chi ha combattuto la guerra di liberazione si potevano trovare le radici di un'Italia moderna. In questo rifiuto si trovano i semi del clima che ha permesso nel tempo la sopravvivenza strisciante del fascismo di cui abbiamo detto sopra. E però credo anche che se le divisioni ci sono state vadano raccontate e discusse per filo e per segno, come pure va considerato il fatto che, per quanto confusamente, una parte del movimento di opposizione armata ai tedeschi e ai fascisti, pensava a quella lotta come all'inizio di una guerra di classe, rivoluzionaria.
Per questo sono d'accordo anche con chi dice che, dall'altra parte, assumersi il compito di tenere viva la memoria della lotta per la libertà comportava l'impegno di raccontare tutto per bene, di non tenere nascoste le vergogne e i crimini quando c'erano, senza cercare di costruire per la Resistenza un monumento compatto e senza ombre. Perchè in questo modo si sono lasciati fuori, come se non fossero degni di essere ascoltati, eventi e memorie che poi nel tempo hanno reclamato il loro spazio, e si è permesso a chi poi ha recuperato queste vicende di farne un'occasione per mettere di nuovo in dubbio la possibilità della Resistenza di fondare la costruzione di un sentimento civile collettivo: se, pur avendo ragione, non accetto di affrontare fin dall'inizio i miei torti, poi questi torti potranno essere usati contro di me, in modo magari strumentale ma con un peso che potrebbe apparire ancora maggiore (3).
Detto questo però torno al mio punto: i limiti e le contraddizioni non si devono tacere ma devono essere pesati per quello che pesano. Penso di essermi fatto un'idea abbastanza chiara di cosa poteva significare essere comunisti alla fine della guerra, nel bene e nel male. E penso che la cosiddetta (ma in una certa misura reale) egemonia dei comunisti sulla Resistenza non basti a giustificare il tentativo di rendere marginale la lotta partigiana nella storia e nella coscienza civile degli italiani: quello che sopra ho chiamato pressappoco “fascismo strisciante”. Che le brigate comuniste fossero le più numerose dipendeva molto dal fatto che i comunisti erano i più organizzati, erano quelli che anche sotto il fascismo erano riusciti a ricostruire un po' di organizzazione in clandestinità e per questo erano stati i più pronti a reagire e ad attivarsi nel momento in cui era caduto il regime. Questo non vuol dire che poi tutti i partigiani delle brigate Garibaldi fossero filosovietici ortodossi e avessero in mente il comunismo realizzato e la lotta partigiana come prima tappa dello sterminio della borghesia. E il ruolo giocato dai comunisti nella storia dell'Italia repubblicana, negli anni della guerra fredda, stando sostanzialmente dentro i termini del gioco democratico, lo testimonia. Certo, si sa che i comunisti erano comunisti, che cos'era e come funzionava la macchina organizzativa e ideologica del PCI, come e quanto il PCI stava attaccato all'Unione Sovietica. Non penso affatto che il PCI fosse la cosa migliore che ci poteva capitare: da tanti anni mi chiedo cosa saremmo adesso se avessimo avuto una SPD al posto del PCI, e personalmente credo che non sarei durato dieci giorni in URSS e che non avrei resistito due mesi nel PCI degli anni '50. Ma questo non toglie che anche coi comunisti – non solo e non principalmente coi comunisti, ma anche con loro – abbiamo un debito per l'esistenza della democrazia in Italia, debito che va oltre i limiti della democrazia dentro il PCI e i limiti del ruolo che il PCI ha giocato nella democrazia italiana, limiti entrambi superati nel tempo, abbastanza lentamente e con una certa fatica. Insomma: a – quella della Resistenza era la parte giusta anche se dentro c'erano parecchi comunisti e b – la presenza e il ruolo dei comunisti nella Resistenza non bastano neanche lontanamente a giustificare la RSI e l'alleanza coi tedeschi, specie dopo l'8 settembre quando si sa cosa comportava quell'alleanza. Che poi io pensi (e lo penso) che si sarebbero dovute a ogni costo evitare le vendette e le stragi tra aprile e maggio '45 è un altro discorso. Questo non è un punto di vista personale: lo è ma solo nel senso che è quello di chi si mette nella prospettiva del liberalismo e della democrazia, della Costituzione, un punto di vista che non vedo come non possa, o perchè non dovrebbe, essere di tutti. E invece non lo è, non abbastanza.
A volte penso a come in Germania, dove non c'è stata ombra di moto popolare o di opposizione diffusa contro il regime, neanche quando ormai la guerra era quasi persa, la ricostruzione storica continui a tenersi ben cari e a celebrare senza incrinature i due diversi episodi (molto diversi, anche come ispirazione) in cui pochi testimoni si sono fatti ammazzare cercando in un caso – i cattolici della “rosa bianca” - di scalfire la muraglia ideologica con qualche volantino fatto girare all'università, nell'altro – gli alti ufficiali del complotto del luglio '44 - di eliminare il dittatore con un attentato. In Italia le responsabilità dei comunisti bastano sempre a giustificare quasi tutto, in particolare permettono di gettare tutte le ombre possibili su un movimento di opposizione politico e militare che, diversamente radicato e diffuso, ha comunque avuto un peso di qualche rilievo (d'accordo, non essenziale...) nella guerra, ma poi ha avuto soprattutto un significato fondamentale nella costruzione del modello di società che si è realizzato e al quale, non a caso, dobbiamo un'Italia che è senza dubbio la migliore nella sua storia: quella della democrazia e dello sviluppo (4), pur con tutti i difetti e i limiti rispetto ai paesi europei di più antica tradizione parlamentare.
Allora che si fa? Si continua a raccontare: Simone ha ragione soprattutto quando insiste sull'importanza del lavoro fatto dagli storici (locali e non) sul campo, negli archivi, nella raccolta delle testimonianze orali, nella costruzione di un quadro fatto di molte scene diverse, in cui ci stia tutto quello che ci deve stare: i mille personaggi, la difficoltà del momento e l'enigmaticità delle scelte, i drammi personali e lo strazio dei sentimenti, gli odi e le compassioni. Ma occorre – del resto è inevitabile trovare un senso – raccontare dando senso alle storie dentro l'orizzonte della democrazia liberale, e recuperare in primo luogo le decisioni e i progetti di chi più chiaramente e più in anticipo aveva capito che quella era la direzione in cui si doveva andare. Mi obietto da solo: ma se si recupera solo questo non resta troppo poco? Mi rispondo: primo, non ho detto solo questo ma in primo luogo questo. Sono arrivato fin qui proprio dicendo che anche i comunisti vanno recuperati, e anche altre cose. Secondo: no, non è affatto poco. Tra i semisconfitti, solo i francesi avevano più di noi, perchè i maquis hanno cominciato presto e avevano dentro sia De Gaulle che i comunisti che altro, e infatti sono messi un po' (abbastanza?) meglio di noi. La Jugoslavia ha avuto Tito, che liberale e democratico non era, e che è servito un po' finchè è vissuto ma non ha risolto niente, come tragicamente si è visto poi. I tedeschi – straordinario - non avevano nulla e da quel nulla hanno tirato fuori la Germania del dopoguerra, che nel complesso resta una cosa da ciucciarsi le dita, malgrado i fantasmi e gli scheletri di cui racconta Heinrich Böll (anzi, giusto qualcuno come Böll sarebbe servito anche a noi... Vabbè che noi abbiamo avuto non solo Fenoglio ma Calvino...). Noi avremmo parecchia roba: non tutta pulita, niente affatto perfetta, come si è detto, ma parecchia. Ma non abbiamo mai imparato a discutere e criticare senza distruggere, a ripulire senza buttare il bambino con l'acqua sporca, e l'eredità di questa incapacità ce la portiamo dietro ancora. E si vede, e ci pesa.

(1) Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria, Laterza 19961. Ho trovato in rete qui un articolo dal Corriere del 2003 in cui Galli della Loggia rimprovera ancora alla Resistenza di non aver saputo essere abbastanza “nazionale”, specialmente per colpa dei comunisti. Capisco la sua analisi secondo cui all'Italia repubblicana sarebbe mancato il senso dello stato perchè non c'era più spirito nazionalistico. Tutti d'accordo che alla classe dirigente della Repubblica italiana sia mancato in qualche misura (e sempre di più col passare del tempo) il senso dello stato, qualche dubbio sul fatto che sia il nazionalismo il modo migliore per trasmetterlo alla gente. Mi sento tendenzialmente più d'accordo con Alberto Mario Banti che trova sempre che lo spirito nazionale, anche quello del Risorgimento, sia più un pericolo che una risorsa, o con Guido Crainz, che di fronte all'antitesi tra senso dello stato e spirito di parte trova che una delle matrici del problema stia proprio nel modo in cui il fascismo si è appropriato dell'idea di patria escludendone tutto ciò che non era fascista. Non ho sottomano i riferimenti a Banti, il riferimento a Crainz è sempre ad Autobiografia di una Repubblica, Feltrinelli 2012, cap. III, pagine 25-29.
(2) Uno dei libri più famosi e per me più importanti in questo senso (l'ho ripreso sitematicamente in questi giorni dopo averlo passato “a salti” tempo fa) è il bellissimo epistolario di Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco (G.A. e D.L.B., Un'amicizia partigiana, Boringhieri 2007, 1^ ed. 1990, 20 euri), che mostra come nei pensieri di chi combatteva ci fosse proprio questo progetto, un'ipotesi di civiltà nella libertà nella quale credo che dovremmo trovarci dentro perfettamente e che nella sua ispirazione moderna e radicalmente liberale si trova per me agli antipodi rispetto al “fascismo strisciante”. Leggendolo ho pensato e penso che di quest0 tipo di gente avremmo avuto e abbiamo bisogno. E non erano santi: facevano la guerra e usavano la forza, il che a me pone sempre dei problemi. Ma è un modo di fare la guerra e di usare la forza che riesco a concepire e che sarebbe piaciuto al colonnello Dax.
(3) Qualche anno fa una collega mi ha regalato credo il più famoso degli ultimi libri di Pansa, Il sangue dei vinti più volte ristampato da Sperling e Kupfer. Le operazioni come quella su cui Pansa ha costruito la sua fortuna editoriale degli ultimi anni sono legittime, per carità: ha raccontato storie che era giusto raccontare. Ma lo ha fatto scegliendo il più delle volte quella forma ibrida, una specie di pellegrinaggio della memoria che non è saggio storico (neanche divulgativo) né romanzo, che mi pare finisca per isolare gli episodi di violenza dal quadro generale e per sollecitare soprattutto gli aspetti emotivi. Farà bene a chi si è sentito escluso, come una specie di riscatto tardivo, ma l'effetto è stato quello della provocazione, effetto previsto e forse voluto. Fai benissimo a raccontare situazioni non chiarite, ma magari dovresti ricordarti di tirare le somme con sufficiente frequenza e di mettere queste figure non solo in luce, ma anche accanto alle altre figure. Proprio perchè la faccenda è così delicata e difficile da maneggiare, dovresti fare il possibile per stare attento a tenere insieme tutto quello che serve. A meno che fare casino non sia precisamente il tuo scopo.
(4) Qualcosa di molto simile mi pare si possa dire per la formazione dell'unità statale: non ne so molto, ma mi dicono che in Germania non hanno molte riserve neanche su Bismarck come padre della patria, a parte forse qualche mugugno da parte dei più socialisti. Eppure, fossi tedesco, sono sicuro che su Bismarck avrei qualcosa da obiettare. Invece da noi sui padri della patria si tirano secchiate di merda con grande disinvoltura. Non dico certo che di Garibaldi Mazzini e Cavour bisogna fare il santino, anzi, anche in questo caso l'errore è stato un po' quello di provarci. Ma nell'insieme, con i loro difetti, dovremmo tenerceli buoni e fare attenzione a tutti e tre, per quanto differenti: mi risulta che in Germania e in Spagna qualcuno ce li invidia, e che nel mondo anglosassone li ammirano, o almeno li stimano. E comunque nessuno dei neopadani o neoborbonici ha qualcuno di neanche lontanamente simile, per statura e valore, a cui guardare. E insieme a questi tre ce ne sono molti altri, che sarebbe lungo qui stare a considerare. Dico solo per esempio che uno dei libri che vorrei comperare e leggere prossimamente è questo.

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