sabato 4 gennaio 2014

CUSTODIRE IL MONDO

Charles Angrand, Le gardien de dindons (1881)
A volte guardiamo alla nostra vita e proviamo un senso di delusione per quello che dovevamo fare e non abbiamo fatto, perchè non abbiamo saputo dare alla nostra esistenza la dimensione che volevamo. Magari abbiamo mille ragioni per pensarlo. Ma forse una parte del problema è che non abbiamo abbastanza rispetto per chi si accontenta di fare dignitosamente poche cose semplici, o per noi stessi quando, in certi periodi o per certi aspetti della nostra vita, ci limitiamo a cercare di fare bene le poche cose che pensiamo di saper fare almeno un po'.
La prendo da lontano. Per esempio: uno va (per la prima volta) alla Guggenheim a Venezia e viene naturalmente colpito da molte cose. Ma poi capita che, per ragioni certamente diverse dal valore estetico o storico in sé, la cosa che lo fa riflettere di più sia un quadro certamente non fondamentale di un probabilmente minore esposto nella mostra temporanea su postimpressionisti vari.
Mi capita spesso, quando spiego storia, di citare la situazione di una piccola proprietà familiare, con un po' di terra e qualche bestia, come condizione tipica di un'agricoltura precapitalistica. In questi casi, quando si parla dell'allevamento, mi capita di ricordare che la modalità normale di gestione di un piccolo gruppo di animali da cortile prevede che qualcuno li porti quotidianamente a pascolare, compito facile, che può essere assolto molto tranquillamente da qualunque bocia della famiglia, anche piccolo, anche non furbissimo, dotato solo di se stesso e di uno stecco con cui visciatàr con relativa severità eventuali indiscipline animali.
Il Gardien de dindons (1881) di Charles Angrand presenta esattamente una situazione di questo tipo, anche se il pitòn non è l'esempio più tipico, sul piano storico. Ma non importa. Il punto è che questo ragazzo con lo stecco in mano mi sembra raccontato non solo a partire da una solida compassione sociale di fondo (come mi risulta accada spesso, particolarmente in Francia, particolarmente in quel periodo) ma con un'attenzione non banale a una condizione di esistenza monodimensionale. Che vita può aspettare questo piccoletto? Un bocia la cui faccia si vede solo di scorcio, il cui sguardo deve restare orientato nella direzione imposta dal suo dovere monotono, quella del movimento che anima il quadro lungo la diagonale SE-NO, e il cui mantello è, immagino non a caso, dipinto in modo omogeneo e non con il tocco diviso che spetta all'erba e alle bestie e che anima l'una e le altre di una vibrazione che è, a occhio, il vero soggetto del quadro.
Penso spesso a quando ci chiediamo come animare le nostre vite, a come non siamo soddisfatti della loro intensità e grandezza, a come vogliamo/vorremmo essere più grandi e capaci di cose grandi e per questo ci sforziamo di lavorare su più piani, di darci (a noi stessi) consistenza e spessore. In questo senso, chiedersi come vivrà quel ragazzino dipinto non serve tanto a consolarci della povertà delle nostre esistenze, magari abbastanza varie in confronto alla sua, ma a ricordarci che non abbiamo veramente idea di cosa sia nobile e autentico e che la vanità resta sempre in agguato dietro al nostro sforzo di fare cose belle e importanti.
Dipingersi e raccontarsi (anche quando uno dipinge e racconta altre cose – magari totalmente altre – rispetto a sè) allora è indispensabile e inevitabile: tutto sta a decidere quanto e in che modo farlo. Sapendo poi che questa non è una biforcazione qualsiasi delle nostre vicende, come decidere se imparare a sciare piuttosto che a ballare il tango, ma è l'elemento, solo in apparenza esteriore, che dà forma alla composizione. Più il racconto è buono e di qualità più l'insieme sta in piedi e dura. Lo fanno tutti: mettendo insieme poche parole semplici da dire a un figlio o a un nipote (che chissà quanto ascolta e capisce) o cercando di farsi intendere dall'universo mondo. Questa operazione, di fare di se stessi un protagonista o un comprimario di qualche genere di romanzo, la facciamo tutti, almeno da quando la possibilità di essere liberi ci ha spinto a non accontentarci più di un piccolo posto in un grande racconto inventato da altri, da una qualche chiesa che ti dica dove stanno le tue radici sulla terra e quale funzione svolgi e devi svolgere nell'ordine voluto da qualche Dio. Poi sappiamo bene che non è detto che questo basti a renderci liberi: non lo siamo certamente se accettiamo di farci mettere, anziché in queste grandi storie, comunque piene di fascino, dentro alle balle di brevissimo respiro che il mondo inventa solo per poter continuare a funzionare: tipo, ma non solo, quelle che ci spingono a pensare che la nostra vita sarà risolta dal fatto di poterci comperare questa o quell'altra cosa. Per questo, doversi inventare il proprio racconto è una libertà e una condanna insieme, perchè non si tratta di un compito facile e non tutti ne sono capaci, anche se a volte persone semplici che hanno fatto una vita semplice ne sono in grado meglio di gente che ha pensato e fatto e visto molte cose diverse.
Dunque forse non sempre abbiamo tutte le ragioni quando facciamo fatica ad accettare di poter essere solo dei personaggi di contorno, di spiegare la nostra vita solo a partire da poche dimensioni elementari, di essere dipinti senza sfumature nell'atto di svolgere il compito nel quale alla fine consiste tutta la nostra vita, per esempio guardare i tacchini. E' vero che il mondo richiede molto più di questo, ma è vero anche che forse, piuttosto di perdersi in mille impegni e non sapersi più spiegare a se stessi, ci sono molte ragioni per guardare senza diffidenza all'ipotesi di dedicare una religiosa attenzione proprio alle poche cose immediatamente necessarie a sopravvivere – tipo fare il proprio lavoro, tipo cucinare lavare e fare le pulizie, per se stessi e per gli altri. Il mondo ha bisogno di continua manutenzione. Aver imparato a fare bene alcune cose è già una mezza salvezza. E bene vuol dire: in modo che chi si serve di quello che fai sia contento di quello che gli hai dato. E può darsi che tocchi accontentarsi perchè l'altra mezza salvezza non si sa neanche se da qualche parte sia disponibile.

P.S. Pensando a queste cose, come sempre, ne vengono in mente delle altre. Tipo Fellini che per buona parte del suo lavoro ha raccontato la condizione umana come segnata irrimediabilmente dalla nostalgia di un'altra, impossibile, vita, che infatti non c'è. Ma anche quei grandissimi scultori del '900, come Brancusi, Moore o Jean Arp (di cui ci sono appunto alcune cose alla Guggenheim) che, sgualivando bene la materia che avevano per le mani (molto spesso del metallo) sono andati in cerca delle forme più elementari e naturali e semplici e materne a cui potevano pensare. Ecco, questa forse la posso usare la prossima volta che spiego i presocratici. 

davanti al Fruit-amphore di Jean Arp
 

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