venerdì 27 dicembre 2013

IO LI HO CONOSCIUTI

La Stadthalle di Bad Godesberg in una foto degli anni '60
Mi è capitato tante volte, spiegando la storia del '900 (di solito quando si arriva al secondo dopoguerra) di fare una specie di sondaggio in classe per vedere da che tipo di famiglia venivano i fioi.
Chiariamo: non è quella cosa che si racconta che una volta facevano certe maestre per stabilire in anticipo chi andava trattato bene e chi con sufficienza, chi sarebbe stato bravo (i figli della buona borghesia) e chi sarebbe stato verosimilmente scarso (oppure, se pieno di volontà o inaspettatamente capace, degno di essere recuperato e quindi di avere la possibilità di una qualche promozione sociale).
E' vero però che anche le domande che faccio io ai ragazzi sulla loro famiglia e su cosa facevano i loro genitori e nonni hanno alla base un qualche orientamento ideologico, con la differenza che il mio è consapevole e intenzionale, probabilmente un po' più di quanto lo fosse l'atteggiamento naturalmente classista delle vecchie maestre. Quello che cerco di far vedere è in primo luogo che, al contrario di certe maestre “cattive”, bisogna pensare naturalmente che tutti devono avere una possibilità ed essere messi sullo stesso piano. Su questo noi profi abbiamo decine di esperienze di fioi il cui retroterra familiare è tanto più rischioso (o direttamente dannoso) quanto più è benestante: niente di nuovo, la vecchia storia dei bambini viziati perchè trattati troppo bene. Ma c'è anche un punto più precisamente politico di cui mi preme che i fioi si rendano conto.
Di solito il momento buono viene quando si accenna alla fondazione dell'Europa, al piano Beveridge e alla costruzione del welfare nella Gran Bretagna laburista (ma poi anche, per esempio, nella Germania democristiana della ricostruzione e di Adenauer). Perchè in questa specie di buco nero ideologico che da tanti anni è il Veneto, e specialmente il nostro territorio (Oderzo e Motta: già se ci si sposta a Portogruaro o S. Donà o Montebelluna la situazione si fa un po' più chiara...) non si ha più neanche la percezione di quello che, appunto, nel secondo dopoguerra, lo stato sociale ha fatto per la gente di qui. Parlare di Stato è considerato quasi turpiloquio da gente che pensa di non dovere niente a nessuno e di potersi attribuire in esclusiva il merito di quello che ha realizzato. Invece, senza troppo togliere alla gente brava capace di inventarsi cose intelligenti e di guadagnarci sopra, l'esercizio serve a far constatare ai fioi che tra di loro, nell'80-90% dei casi, se si risale all'indietro di una o due, massimo tre generazioni, si trovano famiglie di condizione modesta, che non avevano rendite e vivevano della terra o di qualche genere di lavoro non molto qualificato e che, soprattutto, non si sognavano di avere idee e iniziativa. Pensare a come il nostro mondo qui ha fatto il salto verso il proprio benessere attuale (ancora significativo e diffuso malgrado tutti gli effetti della crisi) dovrebbe far vedere ai fioi che questo salto non solo è recente ma soprattutto si appoggia, come su un fondamento, sullo stato sociale costruito in Italia negli anni '60, che ha permesso praticamente a tutti di avere sanità e istruzione gratuite, oltre a varie altre forme di previdenza e finanziamento (penso per prima cosa all'edilizia, alla relativa facilità con cui chi era adulto negli anni '50 e '60 è riuscito a farsi una casa...).
Oggi, chi ha assistito al crollo del mondo comunista dagli anni '80 in poi, spesso considera, a volte anche in buonafede, tutta la storia del socialismo come una specie di errore macroscopico che bisogna essere ciechi per non vedere, almeno retrospettivamente. Si sa quanto questo sia giustificato da mille elementi che neanche vale la pena qui di cominciare a considerare. Ma spesso si dimentica, specie da parte di chi in buonafede non è, quanta differenza abbiano fatto le socialdemocrazie nell'Europa Occidentale proprio rispetto alle condizioni e alle possibilità della gente comune, più o meno modesta.

Ho ritrovato pezzetti di questo ragionamento in un libro giallo di un islandese (1) che si è scelto come protagonista un poliziotto crepuscolare e depresso abbastanza simile al Wallander di Henning Mankell. Roba non proprio entusiasmante ma con qualche motivo di interesse, roba che mi sono tirato un po' dietro nella scia di tutti gli svedesi eccetera che da qualche anno vanno abbastanza di moda, da Lisbeth Salander in qua (2). La storia gira attorno a vari personaggi, tra cui un giovane socialista islandese che negli anni '50 viene mandato a studiare a Lipsia nella Germania comunista e che nel giro di qualche tempo si disillude profondamente: non solo per le difficoltà del sistema economico e per le ristrettezze della vita materiale, ma soprattutto per il sistema di sorveglianza capillare che affida a ciascuno il compito di vigilare sull'ortodossia ideologica di amici, parenti, vicini, colleghi e conoscenti, sollecitando la delazione e il tradimento in modo notoriamente disumano, come accade in genere in quelle che chiamiamo dittature. Mi fermo qui, quindi poco spoiler per chi voglia provare questo romanzo (che non è malissimo come lettura da vacanze ma a cui si può anche rinunciare senza troppi rimpianti).
Il punto che mi serve è che alcuni dei protagonisti, altri giovani socialisti dell'epoca, che molti anni dopo ricordano quel tempo e quelle vicende, pur avendo vissuto sulla propria pelle e a volte pagato cara quell'oppressione, non hanno abbandonato del tutto il loro orientamento e rivendicano alle idee del socialismo e al proprio impegno, pur se in qualche misura miope e poco lungimirante, proprio quell'efficacia, magari indiretta, che vorrei che i fioi di scuola comprendessero quando si parla dell'Europa ai tempi della guerra fredda. Se si riuscisse a farli leggere un po' di più, magari si renderebbero conto di quanti pezzi di buona (o discreta) storia si possono trovare dentro alla letteratura, anche quella media, abbastanza di consumo. Tipo:
   «Eravamo tutti comunisti» disse poi [Rut] guardando Sigurður Óli. «Noi di Lipsia.»
Tacque mentre il pensiero tornava indietro nel tempo, agli anni in cui era giovane e aveva tutta la vita davanti.
«Avevamo degli ideali» disse guardando Elinborg. «Non so se la gente li ha ancora. I giovani, voglio dire. Ideali sinceri, di una società migliore e più giusta. Nessuno adesso ci pensa più, credo. Adesso si pensa solo a fare soldi, sempre più soldi. Allora nessuno pensava a fare soldi o ad avere il più possibile. Non c'era questo consumismo sfrenato. Nessuno aveva niente, se non splendidi ideali.»
   «Basati sulla menzogna» disse Sigurður Óli. «Non è così? Più o meno?»
   «Non lo so» fece Rut. «Basati sulla menzogna? Che cos'è una menzogna?»
«No» disse Sigurður Óli stranamente accalorato. «Voglio dire che il comunismo è stato abbandonato in qualsiasi paese del mon­do, tranne in quelli dove ancora si commettono palesi violazioni dei diritti umani, come in Cina e a Cuba. Non c'è quasi più nessu­no, adesso, che ammette di essere stato un comunista. È quasi un'offesa. All'epoca non era affatto così, vero?»
Elinborg lo guardò sconvolta. Non poteva credere che Sigurður Óli stesse muovendo delle critiche a quella donna. Anche se avrebbe dovuto aspettarselo. Sapeva che Sigurður Óli votava per i conservatori e qualche volta l'aveva sentito dire che i comunisti islandesi avrebbero dovuto fare ammenda in quanto paladini di un sistema che sapevano essere inutile e che nei paesi in cui era stato adottato più a lungo non aveva portato altro che dittatura e repressione. Come se i comunisti avessero ancora conti aperti con il passato, essendo sempre stati a conoscenza della verità, e fossero responsabili delle menzogne. Forse Rut gli era parsa un bersaglio più facile di altri. Forse la sua pazienza era al limite.
«Avrebbe dovuto concludere gli studi» si affrettò a dire Elinborg, per condurre la conversazione su altre strade.
«Non c'era niente di più nobile, per noi» disse Rut fissando Sigurður Óli. «E non è cambiato niente. Gli ideali in cui noi credevamo all'epoca e in cui ancora crediamo sono rimasti gli stessi e hanno giocato un ruolo importante nel movimento sindacale, han­no assicurato salari decenti, un sistema sanitario gratuito nel caso succeda qualcosa a lei o alla sua famiglia, le hanno permesso di studiare per diventare agente di polizia, hanno messo in piedi il si­stema previdenziale. Ma questo è ancora niente in confronto ai va­lori di matrice socialista che regolano la vita di tutti, la sua, la mia e quella della signora, quella dei grandi e dei piccoli, se vogliamo che la società funzioni. È il socialismo che ci rende esseri umani. Quindi lei non deve prendersi gioco di me, giovanotto!»
«È proprio sicura che sia stato il socialismo, a mettere in piedi tutto questo?» disse Sigurður Óli, che non intendeva cedere. «Per quanto ne so, sono stati i conservatori a istituire la previden­za sociale.»
« Balle» fece Rut.
«E il sistema sovietico?» disse Sigurður Óli. «Che ne dice di tutte quelle menzogne?»
Rut tacque.
«Perché vuole discutere con me? »
«Non ho nessuna intenzione di discutere con lei» fece Sigurður Óli.
«Può essere che abbiano ritenuto di dover prendere decisioni drastiche» disse Rut. «Forse all'epoca era necessario. Lei non po­trebbe mai capirlo. Poi il tempo passa, le opinioni cambiano e cambia anche la gente. Niente è immutabile. Non capisco la sua rabbia. Da dove salta fuori? »
Guardò Sigurður Óli.
«Non volevo mettermi a discutere con lei» fece Sigurður Óli. «Non sono venuto qui per questo.» (3)

Ma poi anche tipo:
Portò loro il caffè in soggiorno ed Erlendur gli chiese di Lipsia. Hannes cercò di spiegare cosa significava essere uno studente in Germania Est nella metà degli anni Cinquanta, e prima di rendersene conto stava già raccontando: i razionamenti, il lavoro volon­tario, la ricostruzione, le parate nel giorno della repubblica, Ulbri­cht, la partecipazione obbligatoria alle lezioni sul comunismo, le discussioni in proposito tra gli studenti islandesi, le attività anti­partito, la Freie Deutsche Jugend, il potere sovietico, la pianificazione economica, i collettivi, la sorveglianza reciproca che garanti­va l'ordine e impediva ogni critica. Raccontò delle amicizie che erano sorte nel gruppo degli islandesi, le idee di cui discutevano, il socialismo come genuina alternativa al capitalismo.
«Io non credo che tutto questo sia morto» disse Hannes, come se fosse giunto a una sorta di conclusione. «Io credo che ci sia an­cora molto di vivo, ma in una forma diversa da quella che poteva­mo immaginare. È il socialismo che rende sopportabile la vita sot­to il capitalismo.»
«È ancora un socialista?» chiese Erlendur.
   «Lo sono sempre stato» disse Hannes. «Il socialismo non ha niente a che vedere con la manifesta disumanità della formulazio­ne che ne aveva dato Stalin o con le ridicole dittature sorte nel­l'Europa dell'Est.»
   «Ma non hanno partecipato tutti alla celebrazione di quell'inganno?» disse Erlendur.
   «Non lo so» disse Hannes. «Io non l'ho fatto, dopo che ho vi­sto cos' era il socialismo reale in Germania Est. In realtà, sono stato espulso perché non ho voluto scendere a compromessi. Ho rifiutato di farmi coinvolgere del tutto dal sistema di sorveglianza, che definivano reciproca. Che bella parola. Per loro era normale che i figli spiassero i genitori e riferissero ogni deviazione dalla li­nea del partito. Questo non ha niente a che vedere con il sociali­smo. È la paura di perdere il potere. Cosa che alla fine, del resto, è successa.»
    «Che vuol dire, farsi coinvolgere del tutto?» chiese Erlendur.
   «Volevano che spiassi i miei compagni islandesi in università. Io mi sono rifiutato. Cominciavo a ribellarmi anche ad altre cose che vedevo e che sentivo. Non andavo alle lezioni obbligatorie. Criticavo il sistema. Non apertamente, ovvio, perché non si pote­va criticare apertamente niente, però discutevamo le pecche del sistema entro piccoli gruppi di persone fidate. C'erano cellule dissidenti in città, giovani che si incontravano in segreto. Io li ho conosciuti.» (4)

Ecco. Mi sembra che si capisca bene: “È il socialismo che rende sopportabile la vita sot­to il capitalismo”. Diciamo che ad accorgersene per tempo, a diventare socialdemocratici con un certo anticipo come hanno fatto i tedeschi, si passa meno da stronzi: chi, come Hannes, non si fa coinvolgere del tutto, fa meno danni; chi ci crede di più, come Rut, rischia di trovarsi a tentare di giustificare l'ingiustificabile. Ma anche Sigurður, che ce l'ha coi comunisti anche e forse soprattutto perchè (nel romanzo) suo padre era comunista, un po' cieco lo è.
Passare le acque, qualche volta nella vita, fa bene alla salute.

(1) Arnaldur Indridason, Un corpo nel lago, 2004, edito in Italia da TEA
(2) Il riferimento naturalmente è alla trilogia di Stieg Larsson.
(3) Indridason, pp. 247-48.
A pagina 249 Rut dice anche: Avevo sempre una gran nostalgia di casa e... le condizioni non era­no delle migliori, l'alloggio era fatiscente, e... io... non mi trovavo bene.»
«No, sicuramente la situazione non era un granché, là, dopo la guerra» disse Elinborg.
   «Era davvero orribile» disse Rut. «La ricostruzione in Germa­nia Ovest era stata dieci volte più rapida, e così negli altri paesi oc­cidentali. In Germania Est le cose accadevano lentamente o non accadevano affatto.»
(4) Indridason, pp. 266-68.

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