Mi è
capitato tante volte, spiegando la storia del '900 (di solito quando
si arriva al secondo dopoguerra) di fare una specie di sondaggio in
classe per vedere da che tipo di famiglia venivano i fioi.
Chiariamo: non è quella cosa che si racconta che una volta facevano
certe maestre per stabilire in anticipo chi andava trattato bene e
chi con sufficienza, chi sarebbe stato bravo (i figli della buona
borghesia) e
chi sarebbe stato verosimilmente scarso (oppure, se pieno di volontà
o inaspettatamente capace, degno di essere recuperato e quindi di
avere la possibilità di una qualche promozione sociale).
E'
vero però che anche le domande che faccio io ai ragazzi sulla loro
famiglia e su cosa facevano i loro genitori e nonni hanno alla base
un qualche orientamento ideologico, con la differenza che il mio è
consapevole e intenzionale, probabilmente un po' più di quanto lo
fosse l'atteggiamento naturalmente classista delle vecchie maestre.
Quello che cerco di far vedere è in primo luogo che, al contrario di
certe maestre “cattive”, bisogna pensare naturalmente che tutti
devono avere una possibilità ed essere messi sullo stesso piano. Su
questo noi profi
abbiamo decine di esperienze di fioi il cui retroterra familiare è
tanto più rischioso (o direttamente dannoso) quanto più è
benestante: niente di nuovo, la vecchia storia dei bambini viziati
perchè trattati troppo bene. Ma c'è anche un punto più
precisamente politico di cui mi preme che i fioi
si rendano conto.
Di
solito il momento buono viene quando si accenna alla fondazione
dell'Europa, al piano Beveridge e alla costruzione del welfare nella
Gran Bretagna laburista (ma poi anche, per esempio, nella Germania
democristiana della ricostruzione e di Adenauer). Perchè in questa
specie di buco nero ideologico che da tanti anni è il Veneto, e
specialmente il nostro territorio (Oderzo e Motta: già se ci si
sposta a Portogruaro o S. Donà o Montebelluna la situazione si fa un
po' più chiara...) non si ha più neanche la percezione di quello
che, appunto, nel secondo dopoguerra, lo stato sociale ha fatto per
la gente di qui. Parlare di Stato
è considerato quasi turpiloquio da gente che pensa di non dovere
niente a nessuno e di potersi attribuire in esclusiva il merito di
quello che ha realizzato. Invece, senza troppo togliere alla gente
brava capace di inventarsi cose intelligenti e di guadagnarci sopra,
l'esercizio serve a far constatare ai fioi
che tra di loro, nell'80-90% dei casi, se si risale all'indietro di
una o due, massimo tre generazioni, si trovano famiglie di condizione
modesta, che non avevano rendite e vivevano della terra o di qualche
genere di lavoro non molto qualificato e che, soprattutto, non si
sognavano di avere idee e iniziativa. Pensare a come il nostro mondo
qui ha fatto il salto verso il proprio benessere attuale (ancora
significativo e diffuso malgrado tutti gli effetti della crisi)
dovrebbe far vedere ai fioi
che questo salto non solo è recente ma soprattutto si appoggia,
come su un fondamento, sullo stato sociale costruito in Italia negli
anni '60, che ha permesso praticamente a tutti di avere sanità e
istruzione gratuite, oltre a varie altre forme di previdenza e
finanziamento (penso per prima cosa all'edilizia, alla relativa
facilità con cui chi era adulto negli anni '50 e '60 è riuscito a
farsi una casa...).
Oggi,
chi ha assistito al crollo del mondo comunista dagli anni '80 in poi,
spesso considera, a volte anche in buonafede, tutta la storia del
socialismo come una specie di errore macroscopico che bisogna essere
ciechi per non vedere, almeno retrospettivamente. Si sa quanto questo
sia giustificato da mille elementi che neanche vale la pena qui di
cominciare a considerare. Ma spesso si dimentica, specie da parte di
chi in buonafede non è, quanta differenza abbiano fatto le
socialdemocrazie nell'Europa Occidentale proprio rispetto alle
condizioni e alle possibilità della gente comune, più o meno
modesta.
Ho
ritrovato pezzetti di questo ragionamento in un libro giallo di un
islandese (1) che si è scelto come protagonista un poliziotto
crepuscolare e depresso abbastanza simile al Wallander di Henning Mankell. Roba non proprio entusiasmante ma con qualche motivo di
interesse, roba che mi sono tirato un po' dietro nella scia di tutti
gli svedesi eccetera che da qualche anno vanno abbastanza di moda, da
Lisbeth Salander in qua (2). La storia gira attorno a vari
personaggi, tra cui un giovane socialista islandese che negli anni
'50 viene mandato a studiare a Lipsia nella Germania comunista e che
nel giro di qualche tempo si disillude profondamente: non solo per le
difficoltà del sistema economico e per le ristrettezze della vita
materiale, ma soprattutto per il sistema di sorveglianza capillare
che affida a ciascuno il compito di vigilare sull'ortodossia
ideologica di amici, parenti, vicini, colleghi e conoscenti,
sollecitando la delazione e il tradimento in modo notoriamente
disumano, come accade in genere in quelle che chiamiamo dittature. Mi
fermo qui, quindi poco spoiler per chi voglia provare questo romanzo
(che non è malissimo come lettura da vacanze ma a cui si può anche
rinunciare senza troppi rimpianti).
Il
punto che mi serve è che alcuni dei protagonisti, altri giovani
socialisti dell'epoca, che molti anni dopo ricordano quel tempo e
quelle vicende, pur avendo vissuto sulla propria pelle e a volte
pagato cara quell'oppressione, non hanno abbandonato del tutto il
loro orientamento e rivendicano alle idee del socialismo e al proprio
impegno, pur se in qualche misura miope e poco lungimirante, proprio
quell'efficacia, magari indiretta, che vorrei che i fioi di
scuola comprendessero quando si parla dell'Europa ai tempi della
guerra fredda. Se si riuscisse a farli leggere un po' di più,
magari si renderebbero conto di quanti pezzi di buona (o discreta)
storia si possono trovare dentro alla letteratura, anche quella
media, abbastanza di consumo. Tipo:
«Eravamo
tutti comunisti» disse poi [Rut] guardando Sigurður Óli. «Noi di
Lipsia.»
Tacque
mentre il pensiero tornava indietro nel tempo, agli anni in cui era
giovane e aveva tutta la vita davanti.
«Avevamo degli ideali»
disse guardando Elinborg. «Non so se la gente li ha ancora. I
giovani, voglio dire. Ideali sinceri, di una società migliore e più
giusta. Nessuno adesso ci pensa più, credo. Adesso si pensa solo a
fare soldi, sempre più soldi. Allora nessuno pensava a fare soldi o
ad avere il più possibile. Non c'era questo consumismo sfrenato.
Nessuno aveva niente, se non splendidi ideali.»
«Basati
sulla menzogna» disse Sigurður Óli. «Non è così? Più o meno?»
«Non
lo so» fece Rut. «Basati sulla menzogna? Che cos'è una menzogna?»
«No» disse Sigurður
Óli stranamente accalorato. «Voglio dire che il comunismo è stato
abbandonato in qualsiasi paese del mondo, tranne in quelli dove
ancora si commettono palesi violazioni dei diritti umani, come in
Cina e a Cuba. Non c'è quasi più nessuno, adesso, che ammette
di essere stato un comunista. È quasi un'offesa. All'epoca non era
affatto così, vero?»
Elinborg lo guardò
sconvolta. Non poteva credere che Sigurður Óli stesse muovendo
delle critiche a quella donna. Anche se avrebbe dovuto aspettarselo.
Sapeva che Sigurður Óli votava per i conservatori e qualche volta
l'aveva sentito dire che i comunisti islandesi avrebbero dovuto fare
ammenda in quanto paladini di un sistema che sapevano essere inutile
e che nei paesi in cui era stato adottato più a lungo non aveva
portato altro che dittatura e repressione. Come se i comunisti
avessero ancora conti aperti con il passato, essendo sempre stati a
conoscenza della verità, e fossero responsabili delle menzogne.
Forse Rut gli era parsa un bersaglio più facile di altri. Forse la
sua pazienza era al limite.
«Avrebbe dovuto
concludere gli studi» si affrettò a dire Elinborg, per condurre la
conversazione su altre strade.
«Non c'era niente di più
nobile, per noi» disse Rut fissando Sigurður Óli. «E non è
cambiato niente. Gli ideali in cui noi credevamo all'epoca e in cui
ancora crediamo sono rimasti gli stessi e hanno giocato un ruolo
importante nel movimento sindacale, hanno assicurato salari
decenti, un sistema sanitario gratuito nel caso succeda qualcosa a
lei o alla sua famiglia, le hanno permesso di studiare per diventare
agente di polizia, hanno messo in piedi il sistema
previdenziale. Ma questo è ancora niente in confronto ai valori
di matrice socialista che regolano la vita di tutti, la sua, la mia e
quella della signora, quella dei grandi e dei piccoli, se vogliamo
che la società funzioni. È il socialismo che ci rende esseri umani.
Quindi lei non deve prendersi gioco di me, giovanotto!»
«È proprio sicura che
sia stato il socialismo, a mettere in piedi tutto questo?» disse
Sigurður Óli, che non intendeva cedere. «Per quanto ne so, sono
stati i conservatori a istituire la previdenza sociale.»
« Balle» fece Rut.
«E il sistema
sovietico?» disse Sigurður Óli. «Che ne dice di tutte quelle menzogne?»
Rut tacque.
«Perché vuole discutere
con me? »
«Non ho nessuna
intenzione di discutere con lei» fece Sigurður Óli.
«Può essere che abbiano
ritenuto di dover prendere decisioni drastiche» disse Rut. «Forse
all'epoca era necessario. Lei non potrebbe mai capirlo. Poi il
tempo passa, le opinioni cambiano e cambia anche la gente. Niente è
immutabile. Non capisco la sua rabbia. Da dove salta fuori? »
Guardò Sigurður Óli.
«Non volevo mettermi a
discutere con lei» fece Sigurður Óli. «Non sono venuto qui per
questo.» (3)
Ma
poi anche tipo:
Portò loro il caffè in
soggiorno ed Erlendur gli chiese di Lipsia. Hannes cercò di spiegare
cosa significava essere uno studente in Germania Est nella metà
degli anni Cinquanta, e prima di rendersene conto stava già
raccontando: i razionamenti, il lavoro volontario, la
ricostruzione, le parate nel giorno della repubblica, Ulbricht,
la partecipazione obbligatoria alle lezioni sul comunismo, le
discussioni in proposito tra gli studenti islandesi, le attività
antipartito, la Freie Deutsche Jugend, il potere sovietico, la
pianificazione economica, i collettivi, la sorveglianza reciproca che
garantiva l'ordine e impediva ogni critica. Raccontò delle
amicizie che erano sorte nel gruppo degli islandesi, le idee di cui
discutevano, il socialismo come genuina alternativa al capitalismo.
«Io non credo che tutto
questo sia morto» disse Hannes, come se fosse giunto a una sorta di
conclusione. «Io credo che ci sia ancora molto di vivo, ma in
una forma diversa da quella che potevamo immaginare. È il
socialismo che rende sopportabile la vita sotto il capitalismo.»
«È ancora un
socialista?» chiese Erlendur.
«Lo
sono sempre stato» disse Hannes. «Il socialismo non ha niente a che
vedere con la manifesta disumanità della formulazione che ne
aveva dato Stalin o con le ridicole dittature sorte nell'Europa
dell'Est.»
«Ma
non hanno partecipato tutti alla celebrazione di quell'inganno?»
disse Erlendur.
«Non
lo so» disse Hannes. «Io non l'ho fatto, dopo che ho visto
cos' era il socialismo reale in Germania Est. In realtà, sono stato
espulso perché non ho voluto scendere a compromessi. Ho rifiutato di
farmi coinvolgere del tutto dal sistema di sorveglianza, che
definivano reciproca. Che bella parola. Per loro era normale che i
figli spiassero i genitori e riferissero ogni deviazione dalla linea
del partito. Questo non ha niente a che vedere con il socialismo.
È la paura di perdere il potere. Cosa che alla fine, del resto, è
successa.»
«Che
vuol dire, farsi coinvolgere del tutto?» chiese Erlendur.
«Volevano
che spiassi i miei compagni islandesi in università. Io mi sono
rifiutato. Cominciavo a ribellarmi anche ad altre cose che vedevo e
che sentivo. Non andavo alle lezioni obbligatorie. Criticavo il
sistema. Non apertamente, ovvio, perché non si poteva criticare
apertamente niente, però discutevamo le pecche del sistema entro
piccoli gruppi di persone fidate. C'erano cellule dissidenti in
città, giovani che si incontravano in segreto. Io li ho conosciuti.»
(4)
Ecco. Mi sembra che si
capisca bene: “È il socialismo che rende sopportabile la vita
sotto il capitalismo”. Diciamo che ad accorgersene per
tempo, a diventare socialdemocratici con un certo anticipo come hanno
fatto i tedeschi, si passa meno da stronzi: chi, come Hannes, non si
fa coinvolgere del tutto, fa meno danni; chi ci crede di più, come
Rut, rischia di trovarsi a tentare di giustificare
l'ingiustificabile. Ma anche Sigurður, che ce l'ha coi comunisti
anche e forse soprattutto perchè (nel romanzo) suo padre era
comunista, un po' cieco lo è.
Passare le acque, qualche
volta nella vita, fa bene alla salute.
(1)
Arnaldur Indridason, Un corpo nel lago, 2004, edito in Italia da TEA
(2)
Il riferimento naturalmente è alla trilogia di Stieg Larsson.
(3)
Indridason, pp. 247-48.
A
pagina 249 Rut dice anche: Avevo sempre una gran
nostalgia di casa e... le condizioni non erano delle migliori,
l'alloggio era fatiscente, e... io... non mi trovavo bene.»
«No, sicuramente la
situazione non era un granché, là, dopo la guerra» disse Elinborg.
«Era
davvero orribile» disse Rut. «La ricostruzione in Germania
Ovest era stata dieci volte più rapida, e così negli altri paesi
occidentali. In Germania Est le cose accadevano lentamente o non
accadevano affatto.»
(4)
Indridason, pp. 266-68.
Nessun commento:
Posta un commento