domenica 7 luglio 2013

QUELLI CHE NON SE LA BEVONO (ovvero: la seconda delle tre cose che non sono riuscito a dire)

(seconda parte della pigna: una storia decisamente vecchia ma che qualcuno magari 
non ricorda o non conosce e che comunque potrebbe riguardarci)

La seconda cosa è la vecchia questione della storia divisa, che è l'altra pesante e difficoltosa eredità del fascismo.
Precisiamo: storia divisa, non memoria. Lo precisiamo in modo un po' pedante perchè poi a volte si sente parlare della memoria divisa come problema. Ma il fatto che la memoria sia divisa è naturale: se mio nonno è stato ucciso dai fascisti, la mia posizione personale, all'inizio, non potrà non essere radicalmente opposta a quella di uno al quale lo zio è stato ucciso dai partigiani. Ma questo all'inizio: poi il compito della storia è esattamente quello di tener conto di tutto e di mediare. Non di mediare a tutti i costi, non di mediare dando colpi a cerchi e botti. La mediazione deve rispettare quella verità laica che esce dai documenti e dalle testimonianze dopo che ci abbiamo lavorato sopra criticamente e che è laica perchè possiamo sempre riaggiustarla. E deve tendere a produrre una ricostruzione che venga tenuta per buona da tutti quelli che condividono un insieme di idee di fondo, morali e politiche, di princìpi. Una storia: condivisa e non più radicalmente divisa, quindi capace di rendere meno complicata la costruzione della rete di ragioni che ci permettono di vivere insieme, come comunità legata dalle istituzioni, dalla politica.
Da un po' di tempo, con qualche ragione, si sottolineano molto i limiti della prospettiva che nel secondo dopoguerra si è cercato di costruire a partire dal punto di vista dei vincitori, della Costituzione, dell'Italia repubblicana. Si dice che la Resistenza non è stata abbastanza forte diffusa e radicata da produrre un sentimento civile unitario solido e autentico, il che in qualche misura è vero. Si dice (e anche questo in qualche misura è vero) che negli anni '50-'70 si è coltivata una retorica resistenziale per certi aspetti enfatica e ipocrita, scarsamente attenta alle ombre del movimento resistenziale e quindi inaccettabile non solo per quelli che avevano aderito con convinzione al fascismo, ma anche per quelli che, pur non essendo fascisti, la Resistenza l'hanno accettata passivamente o subita senza appoggiarla con qualche convinzione neanche nella propria dimensione interiore (come pure molti hanno fatto pur senza manifestarlo apertamente in modo concreto, in quello che alcuni storici hanno definito “antifascismo esistenziale”). Si fa poi una terza osservazione che ha un certo fondamento, quando si ricorda come negli anni '60 e '70 si sia usato l'antifascismo come giustificazione fondamentale della militarizzazione della politica e dell'uso della violenza, fornendo poi qualche appoggio alle ideologie del terrorismo.
Ma ci sono molti ma: tutti questi limiti non cancellano una verità (laica) di fondo: che questo legame tra la spinta ideale della Resistenza e le ragioni di fondo dell'esistenza e dell'ordinamento dell'Italia repubblicana è rimasto e ha funzionato (e in qualche misura ancora resta e funziona). Certo non bene quanto hanno funzionato altri patrimoni ideali-ideologici: Francia e Gran Bretagna a parte, anche la Germania, che non ha quasi avuto una Resistenza, pure è riuscita, nonostante la distruzione, il crollo ideale e il senso di colpa, a mettere insieme un ethos collettivo che (pur con qualche limite, anche là) le ha permesso di attraversare la storia del secondo '900 giocando ancora un ruolo da protagonista, e non solo sul piano economico. Noi non siamo stati altrettanto bravi. Ma delle risorse le avevamo: quantitativamente non dominanti, non capillarmente diffuse, ma qualitativamente di ottima fattura. Si sono tirate secchiate di merda contro la formula un po' trita della “Repubblica nata dalla Resistenza”, ma l'Italia repubblicana è stata indiscutibilmente l'Italia migliore, non solo per il miracolo economico ma per il grado di libertà di cui abbiamo goduto e per il grado di coscienza civile che abbiamo raggiunto: tutti indicatori nei quali certo avremmo potuto arrivare a livelli migliori, livelli che però prima in Italia nessun'epoca (periodo, regime...) ha mai toccato. E se perlomeno questi risultati li abbiamo avuti, lo dobbiamo proprio a questo po' di senso dello stato, a questo ideale civile che si è costruito grazie all'antifascismo e che ci ha permesso di vivere liberi in un paese in cui convivevano e si combattevano (politicamente) il più forte partito comunista dell'Occidente e un partito cattolico al quale la permanenza costante al potere ha permesso/ispirato pratiche di sottogoverno alla lunga letali.
Spesso ho pensato che quelli che vogliono buttare via questo piccolo prezioso patrimonio poi non hanno mai a disposizione qualcosa di solido con cui sostituirlo. Via la retorica della Repubblica e della Resistenza? Ok, a me non piace la retorica. Ma al posto di questa, cosa ci mettiamo? Non abbiamo niente altro che valga altrettanto, neanche lontanamente. Questa gente che pensa che dobbiamo rinunciare a questo riferimento e poi non ha, non può avere, niente di meglio e di serio da proporre, è quella contro la quale credo che adesso, oggi, dovremmo opporre una capacità di credere, un'etica pubblica ricostruita, dei fondamenti su cui mettere in piedi finalmente un senso dello stato decente, con tutte le difficoltà che, oggi forse più di trenta o quarant'anni fa, questo impegno deve affrontare.
Crainz crede che questa posizione scettica nei confronti dei principi del nostro costituzionalismo repubblicano, trovi un punto d'origine (o almeno sia ben rappresentata nella sostanza) dal famoso rifiuto di prendere posizione contro il fascismo da parte di Prezzolini che, mentre Mussolini si prendeva l'Italia, propose di stare a guardare con distacco critico, mantenendo salve la propria integrità intellettuale e la propria superiore moralità grazie alla fondazione di una “società degli Apoti”: quelli che non se la bevono, che non aderiscono né combattono neanche a costo di lasciare che il peggio trionfi. Quel grande italiano che è stato Piero Gobetti, che pure di Prezzolini era amico, appena tre giorni prima della Marcia su Roma aveva risposto a questa provocazione dicendo: «Di fronte a un fascismo che con l'abolizione della libertà di voto e di stampa volesse soffocare i germi della nostra azione, formeremo bene, non la Congregazione degli Apoti, ma la compagnia della morte. Non per fare la rivoluzione, ma per difendere la rivoluzione» (1).

Allora, il carattere essenziale degli apoti (al di là della posizione “nobile”, anche se drammaticamente inopportuna, di Prezzolini) potrebbe essere individuato in una specie di abbandono pigro a una tradizione assorbita in modo sostanzialmente passivo. Di qui la sfiducia fondamentale nella possibilità stessa del cambiamento, nella capacità di costruire un'etica pubblica che attraverso il costume metta un limite spontaneo alla dinamica (fisiologica, utile e legittima) degli interessi individuali. “Le pagine di Longanesi, di Guareschi e di altri ancora offrono riferimenti e conferme a un sentire comune impastato di rassicuranti valori o stereotipi (talora sinceramente condivisi, talora stancamente invocati a proprio alibi). Sono le corde antiche della patria, della famiglia, dell'ordine sociale e morale, di un cattolicesimo più spesso sbandierato che intimamente vissuto. Si aggiunga, come s'è detto, la diffidenza – se non la paura – nei confronti della democrazia in costruzione, o quel disprezzo per la politica che il fascismo delle origini aveva predicato e i guasti del regime avevano accresciuto”. E gli apoti sopravvivono (e prosperano) non solo durante il fascismo e la guerra, ma anche dopo, nell'Italia repubblicana: “è il clima del dopoguerra a infoltire e a modellare le file degli apoti convogliando antiche vocazioni e nuove propensioni, e dando vita a stati d'animo destinati a durare. Dando corpo a una sorta di «partito trasversale», non di rado incline a un'adesione rassegnata e scettica alla Democrazia Cristiana” (2).
Anche negli ultimi anni sarebbe stato molto meglio che, insieme a un sensato sgonfiamento della retorica resistenziale (3), si fosse manifestata, anche abbastanza perentoriamente, la richiesta di un esame di coscienza da parte degli apoti, operazione che, disinvoltamente, anche i tanti cinici di cui oggi l'Italia è piena continuano a rifiutarsi di compiere. Perchè ci sono (stati) degli apoti che hanno una loro nobiltà e dignità (tipo Montanelli, anche se, appunto, invitava a turarsi il naso e votare DC...), e ci sono quelli il cui pensiero non ha nessun respiro ma alimenta solo un'ostinazione sorda, un attaccamento tenace e miope al proprio orto, i cui confini vanno (e vengono) difesi in tutti i modi utili allo scopo, per quanto poco puliti. Li conosciamo bene e li incontriamo tutti i giorni, questi che la sanno lunga, che guardano con sufficienza alla sfera dell'azione civile dall'alto della loro realpolitik spicciola e sorridono dello sforzo di chi si sforza di fare qualcosa di simile al bene comune. Quelli che in fondo pensano che il mondo è dei furbi e che le cose non cambieranno mai. Quelli che trovano le ragioni della politica nella falsa profondità di antropologie fumose da osteria, per cui un popolo è così per natura e non se ne può trasformare la mentalità e il comportamento, quindi l'unica cosa da fare è adattarsi alla situazione e valutare come ricavarne il massimo vantaggio. Quelli che ti fanno i complimenti perchè ti sbatti e ti dai da fare, ma sotto sotto pensano che sei un fesso e che se ti sei scelto una parte che non ti permette di approfittare degli altri sono cazzi tuoi. Sono i figli e i nipoti di quelli che, all'epoca, prima hanno accettato il fascismo, poi lo hanno ricordato con indulgenza, quindi hanno cercato di trasmettere questo ricordo alle generazioni successive, perpetuando la stirpe dei non-bevitori e impedendo sempre, anche oggi, alla destra dell'Italia repubblicana, di diventare una forza politica liberale, rigorosa e moderna (che considera sì l'interesse come motore della società, ma pretende che la competizione si svolga all'interno di regole ferree) e quindi rispettabile. Credo che siano quelli, per capirci, che, sentendosi o essendo liberalconservatori o qualcosa del genere, tra Monti e Berlusconi continuano a scegliere, dopo tutto e per me incomprensibilmente, il secondo.
Dunque, per me, la cosa con la quale sarebbe ora di farla finita, seriamente, è prima di tutto questa: dovrebbe essere guardato e trattato come un mostro e un incivile chi si azzarda a dubitare della necessità assoluta di uno spazio comune di civiltà in cui stare con idee diverse ma con rispetto e con fiducia. E chi lo mette in questione in nome di un cinismo a cui attribuisce magari profonde radici ideali nascondendoci dietro qualche roba sua e meschina, i soliti piccoli interessi. Vorrei trovare in piazza una grande maggioranza di gente che viene volentieri con me al bar a bere e a parlare. E quelli che non se la bevono che stiano per i cazzi loro.

(1) P. Gobetti, La rivoluzione liberale, n. 31, 25 ottobre 1922. Piero Gobetti è morto a 25 anni, nel 1926, in Francia dove si era rifugiato dopo l'affermazione del fascismo in Italia, anche in seguito alle violenze di cui più volte era stato fatto oggetto da parte dei fascisti. Prezzolini (la cui figura complessa non è certo riducibile a questa discutibile presa di posizione) era tra gli amici che vegliarono Gobetti sul letto di morte. Per un ragionamento sugli Apoti Crainz rimanda alle pagine 114-128 della Storia dell'Italia repubblicana di Lanaro (Marsilio, Venezia 1992): io non ce l'ho ma mia cognata sì e presto me lo faccio prestare e per cominciare leggo proprio quelle pagine.
(2) Crainz, cit., p. 44 e 45.
(3) Che, direi io, però permette anche di raccontare la Resistenza fuori dagli eccessi di enfasi, con tutte le ombre, ma con una verità e una concretezza che per certi aspetti ne fanno emergere meglio di prima l'importanza e il peso sul piano dei principi: tante ricerche recenti, per esempio sulla memoria orale della Resistenza, ne danno esempi molto belli e solidi.

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