venerdì 14 giugno 2013

AVANZAMENTO, SOSTEGNO, AVANZAMENTO

 
Un esempio di come si va in sostegno
Una volta ho fatto un corso per allenatori di minirugby. Una cosa minima, una giornata o due: ero presente un po' per fare numero, ma anche per avere un'idea di come si affronta il compito di dare in mano la palla ovale a un gruppo di piccolini.
Poi non me ne sono fatto niente, anche se spero prima o poi di avere modo di provare a seguire una squadra, magari affiancato a qualche allenatore un po' più esperto, uno che ha giocato e di rugby ne sa. A volte fanno così i papà di qualche piccolo giocatore, che all'inizio non ne sanno molto ma in qualche mese imparano abbastanza da poter preparare un po' i bambini (ragazzini) e accompagnarli al torneo. Ricordo che il mantra dell'istruttore federale che ci teneva il corso era: “Avanzare, sostenere, avanzare ancora”. La parola chiave è la seconda: il sostegno, il vero fondamento della logica del rugby. Che vuol dire che da solo non vai da nessuna parte, che l'uomo che porta la palla deve essere il più avanzato della sua squadra e affrontare per primo l'urto contro gli avversari, ma dietro ci devono essere gli altri, che nel momento in cui il compagno viene placcato devono arrivare il più presto possibile e portarlo comunque avanti. Oppure, se il giocatore placcato va a terra, devono difendere la palla spingendo indietro gli avversari e mettendo l'ovale a disposizione dei compagni. Perchè quando si forma un raggruppamento (ruck), quando sul punto del placcaggio arrivano giocatori di entrambe le squadre, è vietatissimo raccogliere la palla dal mezzo della mischia aperta: bisogna spingere indietro gli avversari abbastanza da portare la palla dietro le proprie gambe fino a che arriva qualcun altro a raccoglierla per ripartire in avanti o per passarla, naturalmente all'indietro. Questo è il sostegno, la ragione per cui chi gioca a rugby sa che non solo il successo dell'azione, ma anche la possibilità di rimanere interi dipende dai compagni e da quanto prontamente arrivano. E, reciprocamente, il fatto che i compagni restino interi dipende da quanto rapidamente arrivi tu. Chi gioca dice che è soprattutto questo che fa del rugby una cosa speciale e permette a questo sport di produrre legami di tenacia e durata, pare, davvero ineguagliabili, al di là dell'enfasi e del mito.

L'identità del termine è di sicuro casuale ma, se ci si pensa, forse sotto sotto una ragione c'è. Oggi quelli che a scuola fanno sostegno – gli insegnanti di sostegno – quando li vedi lavorare spesso ti fanno venire in mente proprio questa cosa: che da solo non vai da nessuna parte. Lì capisci che, se metti in classe insieme con gli altri dei ragazzi che soffrono per difficoltà di vario genere, lo fai non per carità, per la nostra gentilezza di persone normali verso gli sfortunati, ma per cominciare a mettere tutti di fronte alla propria responsabilità rispetto agli altri. Oltre che per il fatto che è giusto e che chi ha un problema di suo deve ricevere attenzione quanto possibile.
Le cose che ti raccontano questi giovani profi non solo ti fanno toccare con mano tutti i giorni questa faccenda, che i ritardi e gli handicap non tolgono niente all'umanità delle persone, come sa benissimo chiunque stia regolarmente vicino a uno di loro, per lavoro, per famiglia o per altro, ma ti fanno capire quanto il fatto di avere questi compagni possa contribuire a far stare tutti in classe con un'altra aria, con un altro sistema, e quasi sempre è meglio.
La maggior parte dei profi di sostegno non ha quarant'anni e non ha studiato per fare quello che fa ma per insegnare altre varie cose. Poi si sono adattati più o meno facilmente, più o meno volentieri, facendo corsi e imparando, per poter lavorare, ad affrontare uno o l'altro tipo di problema. E in genere sono bravi, umani, attenti, pazienti, e con i loro ragazzi fanno un ottimo lavoro (salvo eccezioni, per carità). Poi ci parli e scopri che spesso sono anche persone preparate, motivate, che alla scuola potrebbero fare un gran bene messe a fare quello che sanno fare meglio. Non che dove sono non facciano la loro parte, ma a volte penso a quanto sarebbe necessario fare posto e alternare (e talvolta sostituire) ai vecchi ruderi come me gente di quella generazione, dalla quale certamente abbiamo (ho) cose da imparare: ce ne sono alcuni che assumerei subito, magari anche al mio posto, anche se poi cerco di sbattermi quanto basta per avere il coraggio di guardarmi allo specchio la mattina. Queste cose mi capita di dirle spesso, a scuola, in giro per i corridoi.
E invece poi ci sono dei vecchi profi (vecchi come me) che non solo non riconoscono tutto quello che di buono c'è nell'intera faccenda del sostegno, ma vedono e trattano questi giovani svegli e beninitenzionati come se fossero il loro stagista o il bidello, sfruttando quella che secondo loro è un'evidente e naturale superiorità gerarchica per farsi fare piccoli piaceri e servizi. E' ovviamente un atteggiamento idiota, di cui avevo già fatto cenno di striscio (qui, dopo il brano di Kapuscinski) e che ha ancora meno ragioni di essere se rivolto a questi profi di sostegno. Perchè è gente che ha dovuto cercare di mettersi in relazione con persone che impongono spesso sfide complicate e richiedono grande attenzione e capacità di comunicare. Per questo in genere hanno sviluppato, questo mi sembra di vedere, un'elasticità, una sensibilità e un'astuzia che noi mammuth di ruolo il più delle volte ci sogniamo e che li potrebbe rendere nei prossimi anni molto più utili di tanti di noi, che solo dopo diversi anni abbiamo capito che la relazione è metà del nostro mestiere e che, se non teniamo aperti i canali sul piano personale, non abbiamo speranza di far passare quasi niente sul piano disciplinare (nel senso di: didattico). Sembra un po' la vecchia faccenda di Hegel, quella del servo e del signore, con il servo che facendo il lavoro sporco impara più cose. O sembra il rugby, quando si forma la ruck e impari quanto sono importanti e necessari quelli che mettono la testa dove tu non avresti il coraggio di mettere il piede, quelli che ti spingono avanti, quelli che vanno in sostegno. O che fanno sostegno: è la stessa cosa.

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