sabato 11 maggio 2013

MA COME NON TI ACCORGI

Mio papà assomigliava vagamente a Domenico Modugno ma diceva che casomai era Modugno ad assomigliare a lui, perchè era più giovane. Ci sono delle foto in cui la somiglianza si vede un po', ma in quella che ho qui c'è proprio solo un'idea, giusto i baffi, giusto le foto più vecchie in cui Modugno era giovane e mantiene l'aria anni '60 che è l'ultima che mio papà ha avuto, visto che si è ammalato alla fine di quel decennio, verso il '68, mi pare, e non c'è più dal '71.
Per il poco che ricordo e per quello che mi dicono era un uomo semplice e paziente (anche se non proprio adattabile), straordinariamente scrupoloso e buono. Ma non è delle sue qualità migliori che pensavo di parlare qui. Quello lo potrei fare un'altra volta, con un po' di ordine, raccogliendo quello che la memoria e i racconti degli altri mi permetteranno di mettere insieme. Qui volevo fermarmi un momento su un'altra caratteristica, forse meno bella ma su cui spesso mi è capitato di farmi delle domande.
Specialmente da quando ha scoperto di star male e ha capito, lui che era dottore, che era un male rognoso, un difetto a una valvola cardiaca che a quel tempo non si risolveva facilmente come oggi, mio papà ha avuto, mi dicono, dei momenti di cupezza, probabilmente di disperazione. Qualcuno mi ha raccontato che a volte si chiudeva da qualche parte al buio e stava lì per un po' senza fare niente e senza voler vedere nessuno, come a covarsi quel dolore, quella preoccupazione piena di spine. Io non vedevo: ero piccolo e mi tenevano sicuramente al riparo, così non ho ricordi precisi e non posso, neanche a posteriori, farmi direttamente un'idea di come andavano le cose. Tra i milioni di rimpianti che ovviamente mi sono sentito dentro, e certamente non tra i più pesanti, c'è anche questo di non aver potuto mai sapere e capire e provare a fare qualcosa, a stargli vicino, a essere in qualche modo una consolazione.
Una storia che ho letto molto tempo dopo, quando avevo più o meno diciott'anni (1), racconta di una donna giovane, di neanche trent'anni, disperata per aver perso improvvisamente il marito che amava moltissimo e per essere rimasta sola con i tre figli, il più grande di quali ha solo sette anni. Dopo la morte del padre questo bambino dorme con la madre e per un lungo periodo resta tutte le notti sveglio accanto a lei a sentirla piangere, a condividere la sua angoscia. Lei è naturalmente quanto di più importante gli resta, e lui sente confusamente (e teme) che lei non abbia la forza di continuare a vivere. Così sta con lei e veglia e le sta vicino, si aggrappa a lei per trattenerla, quasi fisicamente. Dice, riferendosi alle serate passate con lei prima di quelle notti tormentose: “In quelle ore ho imparato il silenzio in cui si raccolgono le forze dello spirito”. Leggere queste pagine, quella volta, mi ha fatto un'impressione che è ritornata riprendendole adesso. Un bambino di sette anni capace di capire e di trovarsi dentro la forza di essere presente. Ho pensato che questa capacità era indispensabile, che essere uomini voleva dire questo forse prima di qualsiasi altra cosa. In quegli anni mi sono reso conto di quanto fosse difficile impararla e farne il materiale con cui ci si lega alle persone. Ci vuole impegno, attenzione e pazienza. E non ci sono sicurezze, come è naturale quando si ha a che fare con i sentimenti.
Ovviamente non presumo di detenerne il possesso: mi vengono subito in mente alcune delle volte in cui non ne sono stato capace, di quelle, almeno, di cui mi sono accorto. Ma so che tante altre volte ho cercato di stare attento. E' un lavoro da speleologi, rischioso e pieno di tensione, in cui basta mettere una mano o un piede in falso per scivolare e farsi male o far male a chi sta con te. La disperazione ti rende quasi impossibile. E insieme ti fa desiderare che qualcuno trovi una possibilità in qualche modo. Sai che forse uno spiraglio non c'è, ma sai anche che il mondo ha tutte le colpe se non le prova tutte per trovarlo. Stai chiuso al buio e non vuoi niente e nessuno, ma guardi continuamente intorno per vedere se si fa avanti piano il chiaro della lampadina che qualche coraggioso esploratore porta sul caschetto. E' vero che in genere succede il miracolo per cui le forze che sono andate via poi tornano. Ma è anche vero che poi, nei giorni in cui esci e lavori e parli, non è che smetti di sapere, non hai dimenticato che esiste un brutto posto dove presto o tardi ti capiterà di tornare. E la sola cosa che veramente ti solleva è se sai che c'è qualcuno che è in grado (se in quel momento ne avrà la forza, se vuole) di venirti a prendere anche lì. Perfino il tuo dolore potrà apparire poi meraviglioso. Forse: se ti è andata bene, se qualcuno ti ha cercato e ti è arrivato vicino. Abbastanza vicino. E se no?

(1) Elias Canetti, La lingua salvata. Il riferimento è alle pagine 88 sgg. dell'edizione Adelphi 1980

Elias Canetti

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