giovedì 24 gennaio 2013

VENT'ANNI DOPO

Hanno quasi quarant'anni, trentanove per la precisione. E non sono neanche i più vecchi: i miei ex-allievi più vecchi adesso ne hanno quarantuno. Però è comunque una delle prime tre classi che mi sono state affidate nella scuola privata in cui ho cominciato a insegnare. Prima avevo fatto solo una supplenza di quindici giorni in una scuola media. Poi là: a scuola dai preti, a fare italiano e latino, con parecchia passione e impegno e nessuna esperienza.

Com'ero? Difficile ricordare. Ho presente bene che c'era molto da studiare, perchè per insegnare dieci ti senti che devi sapere cento e ancora non basta. Ho presente che cercavo di fare cose nuove e di rendere almeno un po' originali le cose di cui parlavo, che facevo lo sforzo (che ho sempre fatto) di filtrare quello che leggevo e raccontavo in modo da integrarlo il più possibile con le cose che vedevo e che vivevo, e che pensavo anche loro potessero e dovessero vivere e vedere. A qualcosa serviva, anche se sapevo per esempio che a qualcuno degli studenti stava sul cazzo il mio tentativo di non essere esattamente un prof. classico. Qualcuno probabilmente preferiva una cosa magari più ovvia ma più semplice, anche solo per fare meno fatica. Ma forse è vero che non avevo del tutto la misura. Ho sempre avuto la tendenza a metterla giù un po' difficile, qualche volta forse un po' troppo. Ma ho sempre preferito così, pur aggiustando il tiro per adattarmi al livello di chi avevo per le mani, perchè ho sempre pensato che chi studia vada messo un po' in difficoltà e che sia giusto ogni volta proporre ai fioi una piccola sfida.
Ma so che poi, molto spesso, di tutto questo impegno nella loro memoria di solito non resta gran che. Dopo anni, di te si ricordano soprattutto le cazzate. Le manie gli errori le gaffes, l'abbigliamento fuori moda eccetera. Una volta ho incontrato una laureata che non ha trovato di meglio che rievocare la volta che ero andato a scuola con un calzino verde e uno grigio (se ti alzi prima e non accendi la luce per non disturbare chi dorme ancora, può capitare...). Ripensano a quello che sei, cioè che eri, e in genere ai lati peggiori, mentre di quello che fai, cioè che hai fatto, di quello che hai cercato di far passare, a volte neanche una briciola.

Non posso dire di essere rimasto deluso rivedendoli. Quasi tutti maschi: al ristorante, un locale piuttosto cavà su, alla cena per il ventesimo anniversario della loro maturità (giugno '92) le ragazze erano solo due su sei. Senza dubbio sono diventati uomini (e donne) e praticamente tutti mi hanno dato un'impressione di sostanziale solidità ed equilibrio. Non mi ha fatto più di tanta impressione neanche ripensare al piccolo problema dell'orientamento politico abbastanza largamente diffuso tra loro, che all'epoca mi aveva un po' messo in imbarazzo sia quando un padre mi aveva detto che per lui “l'insegnante doveva essere come il Duce della classe”, sia quando una madre mi aveva citato non so che pensiero profondo e illuminante di Mussolini. Ho trovato che francamente meritassero un onesto e sincero rispetto: a occhio, per alcuni, probabilmente, andando a vedere caso per caso cos'hanno combinato, ci sarebbe magari da scomodare anche l'ammirazione. Ma.

La cosa che si ricordavano meglio alla fin fine era che tra noi c'era stata una guerra non troppo radicale ma aperta e dichiarata, che io all'epoca non ho trovato di meglio da fare che combattere gridando loro dietro. Spesso, intensamente. Adesso non mi capita quasi più: quando sai di avere il manico in mano ti basta un piccolo sforzo per impedire agli studenti di rompere e per indurli a seguire, cercando sempre di usare più le buone che le cattive. Ma all'epoca era difficile: la bestia da classe sente subito la tua incertezza e se ne approfitta. E se non sei abbastanza forte da reagire subito nel modo più efficace, se non dimostri che con te non si scherza, la vita diventa abbastanza difficile. Era il tempo in cui ogni quindici giorni mi dicevo che avevo sbagliato mestiere, cosa che poi mi sono reso conto essere la normalità assoluta quando si comincia a insegnare. Era il tempo in cui avevo, dono della zia N., una vecchia Fiat 126 bianca con sfregio di ruggine sulla portiera del guidatore, sfregio che fu tirato su dal carrozziere, lavoro che fu pagato dalla mia terza mesata di stipendio. Io arrivavo alla scuola, parcheggiavo e uscivo dalla macchina praticamente rasoterra, spesso mentre proprio nello stesso momento arrivava uno studente che sistemava il suo gippone (una specie di nonno dei suv) nel posto accanto e, scendendo dal suo sedile, collocato circa al livello della mia capote, mi guardava inevitabilmente e inequivocabilmente dall'alto in basso. Inesperienza a parte, non servono tanti altri dettagli per capire perchè mi toccasse gridare. E immaginavo, prima di rivederli, che anche adesso quello che io so fare è cosa che a diversi, forse alla maggior parte di loro, non serve: facile che mi fosse riservato un rispetto d'ufficio, senza impegno e senza autentica stima.

Così per la cena mi sono anche travestito, come ogni tanto faccio, da persona estroversa. Non è troppo fastidioso e permette di non subire troppo, anche se rivela una punta di insicurezza. Così ho parlato molto e ho risposto a tono a tutti. Ma è sempre una scelta un po' faticosa. E comunque tutto è stato regolarmente gradevole, senza incidenti. Avevo bisogno di rivincite? No, non le ho cercate e d'altra parte non ce n'era modo e sarebbe stato stupido. Siamo grandi abbastanza per guardarci con rispetto. Reciproco, se possibile. Ma anche non fosse, io il mio ce lo metto e sto meglio così. Non avanzo niente. Affetto? Tracce: come lo stronzio nell'acqua minerale. Qualche frase con un peso specifico più alto, un paio di strette di mano che mi sono parse più sincere, un paio di fioi che (da fuori, da dentro non sai mai...) sembrano degli autentici family men. E i moschettieri, gli eroi dell'avventura? Non li ho visti, secondo me non c'erano. Cosa? E' perchè non ce ne sono più in giro? No, non è vero, ce ne sono: io qualcuno lo conosco.

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