martedì 1 gennaio 2013

DOMMAGE, REGRET, PITIÉ.

Georges Perec
La prima volta dev'essere stato in una versione. La famosa lettera (1) in cui Seneca argomenta che il vero saggio non ha bisogno di niente se non di sé stesso e del proprio equilibrio la devo aver letta per la prima volta in una traduzione per casa o addirittura in un compito. Nel ragionamento Seneca racconta la storia della distruzione di Megara da parte del re macedone Demetrio, dopo la quale si vede il filosofo post-socratico Stilpone aggirarsi tranquillo tra le macerie fumanti.
Il potente re è sorpreso e forse leggermente infastidito dalla noncuranza di questo anziano signore, di cui si precisa che la guerra recente gli ha tolto moglie e figli: per questo lo interpella chiedendogli se ha perso qualcosa. Stilpone, senza scomporsi, gli risponde di avere con sé tutto quello che gli appartiene veramente (“omnia mea mecum sunt”) e Seneca si sofferma a lungo sull'esempio di virtù costituito dal comportamento di uno che non ha bisogno di niente e non si attacca alle cose.
Queste icone etiche paradossali sono belle da vedere, apparentemente scintillanti. Ma sono quasi del tutto inutili, come tutto il nostro tempo dannato ha imparato con dolore a capire, se non prendiamo atto anche di quanto sia inevitabile che la nostra esistenza si incrosti sulle cose che abbiamo e che usiamo, sulle quali cerchiamo sostegno e ci aggrappiamo, tanto che alla fine ci rimangono sempre impigliati sopra parecchi brandelli di roba nostra. E da questo fenomeno non restano esclusi quegli oggetti solo apparentemente immateriali che sono i libri o gli altri portaparole moderni, più o meno tecnologici, che alcuni giustamente considerano il substrato delle proprie “patrie portatili”. Il punto (e il problema) è che noi oggi ci siamo accorti che se cerchiamo di liberarci da questa specie di rete, pensando che più che sorreggerci ci ostacoli e ci impedisca di essere liberi e procedere più leggeri, e proviamo, con un duro esercizio, a staccarci dalle cose, rischiamo di trovare, come sorpresa finale, che sotto e dietro a questa rete irregolare di sporgenze e spuntoni non c'è niente. La leggerezza della nostra condizione è quella del fun o del caìvo (quale allegria? niente allegria...), rispetto alla quale le cose conservano invece una densità che permette loro di durare e sopravviverci, di portarsi dietro senso condensato, magari indecifrabile e comunque equivoco, che poi si piazza da qualche parte a formare appigli che poi servono a chi altro passa di là per appendersi a sua volta.
Giorgio, che nella foto, emblematicamente, quasi lascia al gatto la parte del protagonista, aveva benissimo capito questa cosa. Ma soprattutto è stato quello, tra quelli che conosco, che è riuscito a mettere meglio insieme questa scoperta abissale e apparentemente tristissima della vanità dell'esistenza con l'ostinazione dell'attenzione e della memoria (e, naturalmente, dell'amore) che lottano contro la morte. E' una battaglia persa in partenza, si sa, ma mica c'è altro da fare. E allora ci si mette lì e ci si costruisce, senza neanche troppa fatica, una specie di religiosa benevolenza verso tutto, la quale poi permette di trovare sensati e praticabili i celebri elenchi e descrizioni dettagliate che fanno per buona parte lo spessore (anche fisico) del suo Libro, vale a dire La vita istruzioni per l'uso (2).
Non è possibile leggerlo facendo attenzione a tutto: su molti passaggi è inevitabile correre via. Ma ci sono elenchi, immagino diversi da persona a persona, su cui invece la memoria si impiglia e viene trattenuta e ci si ferma un attimo su ogni nome e dato e particolare lasciando che risuoni ed evochi. Perchè comunque l'effetto complessivo che la massa di nomi e dati e particolari produce è quello di far pensare a ogni oggetto e a ogni luogo fisico (ogni stanza dell'edificio che è il luogo e insieme il catalizzatore delle vicende del romanzo) come a un punto di una mappa molto analitica, a un rilievo in una superficie vasta e accidentata, a un incrocio di coordinate dietro al quale preme una vertigine di forze ed eventi che hanno congiurato, casualmente o provvidenzialmente, per produrlo. E' questa bellissima e malinconica combinazione di vuoto di senso e pienezza sentimentale che mi fa volere così bene a Giorgio e che, in questi giorni, mi ha fatto divertire e commuovere ancora una volta, alla terza lettura.
Architettura ipercontrollata, costruita da chi comunque sa di non potere invece a sua volta mantenere il controllo di tutto, l'impresa del libro, nella sua complessità e vanità insieme, è rappresentata nella vicenda del protagonista principale, il ricchissimo Bartlebooth. Ma nel racconto di questi tentativi disperati e vani (quello dell'autore e quello del protagonista) di compiere qualcosa purchessia (gratuito per gratuito, meglio se si tratta di un gioco complicatissimo e laborioso...), emergono come isole di un arcipelago tutte le storie degli altri, protagonisti e meno. Sono una più bella dell'altra (3) e molte di esse offrirebbero potenzialmente materiale sufficiente per un romanzo intero. Nell'insieme conservano dentro tutta la lezione della grande letteratura classica: vitale, fluviale, emozionante, con alla radice la gioia elementare e il desiderio potentissimo del puro racconto.
Il Camus raccontato da Amelio (4) mi diceva proprio ieri, a margine del suo ragionamento sui conflitti tra le patrie, che il senso della storia non si trova nella storia ma nella letteratura. Appunto. E anche il nonsenso della storia. E anche, malgrado il nonsenso, i soliti amori dolori sudori. Giorgio, come tanti scrittori bravi, non ti lascia entrare tanto facilmente ma, come spesso accade, una volta che sei entrato ti offre qualcosa di buono: una delle intuizioni più precise, come si diceva, della nostra condizione in questo lunghissimo presente disorientato, però accompagnata da quella forza e delicatezza di sentimenti che è la risorsa senza la quale ci è impossibile vivere. Uno: il sentimento di dispiacere che si prova nel vedere le vite incompiute, i progetti falliti, gli amori sfioriti o traditi e tutte le cose e i progetti su cui gli uomini investono e si affannano con molto costrutto ma anche poi con un destino di inevitabile e fatale insoddisfazione e distruzione. Due: il sentimento che chi ha fallito (cioè in qualche misura tutti) prova, quello che evoca altre vite e percorsi diversi che erano e forse sarebbero ancora sempre a portata di mano e che però sono perduti o impossibili per forza di cose o debolezza nostra. Si tratta di un dolore tra i più tenaci, spesso sordo, a volte acuto. Tre: la compassione oblunga, quella che ti fa assolvere tutti perchè tutti hanno sofferto abbastanza e chiede pietà e rispetto a un qualche genere di Dio. E che mette nella fondamentale disposizione, quando occorre, di preparare un piatto di minestra calda per chiunque abbia fame e freddo. 
  1. Ad Luc. 9, 18-19. "E tuttavia, pur amando molto gli amici, che mette sul suo stesso piano, o che spesso addirittura antepone a se stesso, il saggio delimiterà in sé ogni suo bene e ripeterà le parole di quel famoso Stilpone, quello stesso che Epicuro critica nella sua lettera. Costui, dopo la caduta della sua città, in cui aveva perso moglie e figli, uscendo solo, e tuttavia sereno, dall’incendio generale, a Demetrio, che ebbe poi il soprannome di Poliorcete per le città da lui distrutte, che gli domandava se avesse perso qualcosa, rispose: «Tutti i miei beni li ho con me.» Ecco un uomo forte e valoroso! Egli vinse il nemico vincitore. «Non ho perso nulla», disse: e costrinse il nemico a dubitare della propria vittoria. «Tutti i miei beni li ho con me»: senso di giustizia, virtù, saggezza e soprattutto la certezza che non è un bene ciò che può essere tolto. Noi ammiriamo certi animali che attraversano il fuoco senza farsi male; ma quanto è più ammirevole quest’uomo che uscì illeso e indenne dalle armi, dalle rovine, dalle fiamme! Vedi quanto è più facile vincere tutto un popolo che un solo uomo? Stilpone ha in comune questa convinzione con il filosofo stoico: anch’egli porta i suoi beni intatti attraverso la città in fiamme; poiché egli basta a se stesso delimita entro questi confini la sua felicità". La traduzione è trovata in rete. Mi pare canonicamente corretta.
  2. La vie mode d'emploi, 1978, tradotto in Italia nell'84, circola in edizione Rizzoli 2002 a 10 euri.
  3. Alcune di queste storie, infatti, sono state utilizzate con successo come lettura serale per V. e L., nel lettone.
  4. Il riferimento è al dialogo tra lo scrittore Jacques Cormery/Camus e il vecchio maestro nel film Il primo uomo, di Gianni Amelio. La frase è: “La verità è nei romanzi. La Russia non è nei libri di storia, ma nei libri di Tolstoi e Dostoevskji". Mi torna che una frase del genere venga affidata a quell'autentico teacher man (seppure in versione, ovviamente, retro) che è il monsieur Bernard di Camus. In questo film va visto anche, oltre a tutto il resto, l'intervento (complesso e un po' predicatorio, ma molto fine e di grandissimo spessore) che il protagonista fa alla radio nel finale: ottimo esempio di come si disegna l'unica difficilissima, il più delle volte improbabile, prospettiva possibile nei conflitti tra patrie sullo stesso territorio. Se ho tempo lo trascrivo per vedere se è davvero così bello come mi è sembrato. (P.S. La trascrizione è qui)

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